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Maggio ad Acquaviva Collecroce

Maja

1 MAGGIO

Il Mája di Acquaviva Collecroce

Acquaviva Collecroce (Campobasso) è un comune molisano popolato da un'ondata migratoria slava dalla prima metà del XVI secolo, come afferma Milan Rešetar: «Tutte le informazioni affidabili che possediamo sopra quegli slavi del Molise, di cui gli ultimi residui sono rimasti nelle tre note località, concordano infatti nell'affermazione che essi furono insediati nelle località in questione nel corso della prima metà del XVI secolo e parlano di loro proprio come di gente che era venuta dalla Dalmazia in Italia non molto tempo prima [...]».

In questo paese, di circa 740 abitanti, ha avuto luogo una importante attività di ricerca sulla lingua slavisana, secondo il neologismo proposto dagli autori del locale dizionario croato molisano. La valorizzazione della lingua, che prevede anche scambi culturali, specialmente in ambito scolastico, con la Croazia, si accompagna alla riattualizzazione delle tradizioni più caratteristiche del luogo.

Oltre la Smercka natalizia, la festa del primo maggio, ripresa dalla metà del 1980 , rappresenta un'occasione di condivisione collettiva di una tradizione particolarmente sentita. Il corteo del Mája rientra nelle feste primaverili propiziatorie , ma ha anche un intento di rafforzamento della fraternità tra la popolazione, che tuttora mantiene vivo il ricordo delle proprie origini. Come avviene nelle analoghe manifestazioni che hanno alla base la figura del pagliaio o pagliaro (l'ammasso di paglia innalzato in forma conica a protezione dalla pioggia), si riveste un telaio conico con elementi vegetali.

Rispetto alle altre composizioni, il Mája di Acquaviva Collecroce ha un aspetto antropomorfo, presenta infatti anche la testa e le braccia. Il risultato è davvero sorprendente e rievoca la fantasiosa complessità di certe immagini arcimboldesche, non tanto in senso grottesco quanto gioioso. La preparazione inizia il giorno precedente la festa, con la raccolta di fiori e primizie, che si protrae fin quando è possibile, per evitarne l'appassimento.

La struttura, alta più di tre metri, è composta da rami flessibili, canne e paglia e, diversamente da quelle di Fossalto e di Colle d'Anchise, non è ricoperta da una rete metallica. L'addobbo viene eseguito da un gruppo di giovani e da alcuni adulti: via via che il Mája prende forma, ognuno contribuisce al miglioramento della composizione con proposte e suggerimenti. Dinnazi al locale adibito per l'allestimento, sostano brevemente alcuni visitatori per seguire e commentare la preparazione.

La mattina del giorno successivo si compiono gli ultimi ritocchi, quando la figura è completata, nel rivestimento e nelle fattezze quasi umane, accentuate nei grandi occhi del volto, il Mája è pronto per essere animato. Questa personificazione presenta un aspetto piuttosto femminile: ha una corona sulla testa, una lunga capigliatura e la parte sottostante appare come un'ampia gonna. Nella rappresentazione osservata nel 2007, il Mája non porta sul capo una croce ma un ciuffo vistoso, a differenza delle analoghe figure di Fossalto (2005, 2006) e Colle d'Anchise (2007), dove addirittura il Pagliaro entra in chiesa.

Alberto M. Cirese, in base alle informazioni raccolte nel corso delle sue ricerche, che attestano la vitalità della festa fino al 1940 e la sua interruzione causata dalla guerra, cita la presenza di una croce di spighe di grano, posta sulla sommità del cono, la benedizione religiosa e la distruzione finale del Mája, presso i ruderi di una chiesa, eseguita da ragazzi.

Su un sito internet dedicato ad Acquaviva Collecroce, è documentata fotograficamente la festa, dal 2001 al 2007, e nel testo introduttivo si legge: "Come da un po' di anni a questa parte viene svolta il primo maggio una festa pagana tramandata dai nostri avi (per fortuna ripresa): si tratta della festa del Mája". Scorrendo le immagini si nota come il ciuffo sia diverso, di anno in anno, cosa che indica come le feste possano risultare diverse, di anno in anno, pur presentando tratti distintivi di base, tracce inevitabili sulle quali i protagonisti procedono con andamenti variabili.

Infine, così composta, la rigogliosa veste vegetale viene indossata da un giovane e ha inizio il corteo, dapprima verso la piazza Nicola Neri, poi lungo le vie del paese. Tra le danze di gruppi in costume provenienti anche da altre località del Molise, e al suono di strumenti tradizionali, lo spirito della vegetazione continua la sua processione, accompagnato dagli occhi discreti di donne che si affacciano dalla soglia delle case o dai balconi. È un giorno particolare, di festa e di memoria, e in tutti vi è un sentimento di seria partecipazione, specialmente nei bambini, impegnati a cantare con l'aiuto di testi scritti.

Questo testimonia l'importanza dell'apprendimento della tradizione nelle feste, non soltanto attraverso il coinvolgimento e l'osservazione, ma anche secondo modalità guidate da associazioni locali, culturali o scolastiche. Via via che il corteo si inoltra nel paese, le danze dei partecipanti e la distribuzione del cibo sciolgono la compostezza iniziale e portano a esprimersi più gioiosamente: giovani e anziani cantano e ballano in circolo attorno al Mája, che si muove con il suo gravoso carico floreale.

La venerazione della natura e le feste arboree

Nel lungo elenco di condanne lanciate dalla chiesa contro le pratiche popolari derivate da preesistenti forme religiose, la venerazione della natura sembra avere un posto privilegiato, in quanto resiste fortemente e si oppone al concetto stesso della creazione come opera divina: «Alii adorabant solem, alii lunam vel stellas, alii ignem, alii aquam profundam vel fontes aquarum, credentes haec omnia non a deo esse facta ad usum hominum, sed ipsa ex se orta deos esse». Alberi, pietre, acque sono oggetto di particolari rituali e, nonostante il cristianesimo, continua un'ideologia di contrapposizione alla religione ufficiale, determinata da situazioni economiche e sociali strettamente ancorate al mondo naturale come fonte primaria di sopravvivenza, soprattutto presso comunità agricole e pastorali: «Nam ad petras et ad arbores et ad fontes et per trivia cereolos incendere, quid est aliud nisi cultura diaboli? Divinationes et auguria et dies idolorum observare, quid est aliud nisi cultura diaboli? Vulcanalia et Kalendas observare, mensas ornare, et lauros ponere, et pedem observare, et fundere in foco super truncum frugem et vinum, et panem in fontem mittere, quid est aliud nisi cultura diaboli?» .

Tali comportamenti rientrano in una sorta di ecolatria non tanto pagana, quanto arcaica e profondamente radicata presso tutte le culture, contro la quale la chiesa lotterà aspramente utilizzando strategie di sostituzione delle entità venerate, sovrapponendo e adattando nei secoli i propri simboli. Tuttavia l'appartenenza al cristianesimo non esclude la persistenza di alcune pratiche: «Sotto i Re Longobardi, che pure professavano la legge Cristiana colla lor nazione, apparisce che molti del rozzo popolo con pazza credulità veneravano certi alberi, da lor chiamati Sanctivi, come se fossero cose sacre. Gran sacrilegio avrebbero creduto il tagliarli; sembra ancora che prestassero ad essi qualche segno di adorazione» .

Esempi di feste arboree connesse con la celebrazione del Maggio sono tuttora presenti in Italia, in particolare in Lucania, dove si può ricordare il complesso Matrimonio degli alberi di Accettura, nel materano, collegato alla processione del patrono San Giuliano. Sono dunque i rituali primaverili i percorsi privilegiati per l'espressione delle valenze propiziatorie degli elementi vegetali che, oltre a caratterizzare la festa o il canto, divengono talvolta strumenti di immedesimazione tra uomo e natura, attraverso la loro personificazione.

James George Frazer ha ampiamente trattato questi temi nella sua opera, sulla scia di Wilhelm Mannhardt, ricordato in questa citazione sulla personificazione dello spirito della vegetazione: «Without citing more examples to the same effect, we may sum up the results of the preceding pages in the words of Mannhardt: "The customs quoted suffice to establish with certainty the conclusion that in these spring processions the spirit of vegetation is often represented both by the May-tree and in addition by a man dressed in green leaves or flowers or by a girl similarly adorned. It is the same spirit which animates the tree and is active in the inferior plants and which we have recognised in the May-tree and the Harvest-May"».

Usanze del Maggio in Molise

Ovidio cita la dea Flora e Plinio le feste denominate Floralia, tenute tra la fine di aprile e gli inizi di maggio: «itaque iidem Floralia IIII kal. easdem instituerunt urbis anno DXVI ex oraculis Sibyllae, ut omnia bene deflorescerent». La via delle antiche reminiscenze è densa di suggestioni, che sopravvivono non tanto nelle sopravvivenze, più o meno consapevoli, delle tradizioni, ma soprattutto nella considerazione su di esse. Eppure tale via, nella sua impossibilità di spiegazione del presente, ha una grande carica evocativa: «La festosa costumanza molisana di cantar maggio è assai antica e trova precedenti celebri nell'era pagana. Presso gli italici si venerava flora, dea dei fiori e della primavera. Sotto la sua egida era l'agricoltura e il primo maggio le era sacro, riconoscendosi in una rigogliosa fioritura un promettente raccolto».

Tra le feste primaverili, attualmente proposte in Molise, caratterizzate dalla personificazione del Maggio, si possono citare: la Pagliara di Fossalto, la Defensa di Lucito, il Pagliaro (R Puogliar d Maj) di Colle d'Anchise e il Mája di Acquaviva Collecroce (Krûc). Nel 1955 Alberto M. Cirese scrive che alcuni documenti attestano questo tipo di personificazioni nei tre paesi d'origine slava , con caratteri nettamente antropomorfi, e in altre località, con diverse modalità: «... oltre che a Fossalto, dove vive ancora [...] una personificazione di tipo pagliara ci è testimoniata anche per Castelmauro, Bagnoli del Trigno, Lucito, Casacalenda, Bonefro e Riccia» . Cirese sottolinea inoltre che questi paesi non sono distanti dalla zona d'immigrazione slava, ad eccezione di Riccia, dove tuttavia è presente un borgo, detto Schiavone, che indica un contatto con gli slavi.

È interessante notare la dismissione dell'usanza, all'epoca dello scritto, proprio da parte di chi, in origine, si suppone l'abbia introdotta: «Il fatto singolare è che gli eredi dei portatori originari, e cioè gli abitanti dei paesi slavo-molisani di Acquaviva, San Felice e Montemitro, abbiano dismesso il costume, e lo abbiano invece conservato i paesi molisani di origine non slava. È evidente che in questo caso, nel processo di livellamento degli immigrati alla cultura nuova (diversa cioè da quella della loro patria), è avvenuto uno scambio: gli immigrati hanno "ricevuto" nuove costumanze e abitudini (e anche una nuova lingua: molti paesi già slavi sono oggi completamente italianizzati anche nella lingua) ma hanno anche "dato" ai vicini alcune loro costumanze. Ed i vicini che le hanno ricevute hanno rappresentato quasi la zona periferica della espansione del costume, una zona marginale "più conservativa"». Nell'operazione di superamento della discontinuità con il passato, oggi ampiamente effettuata per motivazioni che, sommariamente, si definiscono identitarie, le riproposizioni della tradizione e della lingua hanno un ruolo centrale.

Al di là della categoria discriminatoria di invenzione, che stabilisce una classifica di legittimità o purezza, in base a variabili storiche e demologiche, è utile considerare queste espressioni delle comunità, sia pure talvolta sollecitate da singoli o gruppi ristretti, elaborazioni collettive di elementi culturali, pensati come propri e distintivi. Attraverso queste riattualizzazioni si tenta di ridefinire una localizzazione sociale, che può espandersi oltre i confini territoriali, quando è condivisa con le comunità all'estero, e anche oltre i confini di una memoria documentabile, poiché è il vissuto nel presente a dare un senso all'azione collettiva, senza interrogativi sulla defunzionalizzazione.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Feste e Riti d'Italia)
Bibliografia: Alberto M. Cirese, La "pagliara" del primo maggio nei paesi slavo-molisani


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (30 aprile e 1 maggio 2007)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Occitani: convegno

La terza giornata del ciclo Gli Italiani dell’altrove, gli Occitani, è stata organizzata con la stretta collaborazione del prof. Piercarlo Grimaldi, Rettore dell’Università del Gusto di Pollenzo - Slow Food (UNISG) - anche nella sua particolare qualità di etnoantropologo esperto della tematica e del territorio, e dal prof. Davide Porporato dell'Università del Piemonte Orientale.

La giornata, dopo il saluto istituzionale (Anna Conticello Segreteria MiBACT, Maura Picciau, Direttore IDEA, Piercarlo Grimaldi, Rettore UNISG, Emilia De Simoni MAT, Fabienne Rondelli, Ambasciata di Francia in Italia) ha offerto un vivace racconto di “Antropologia visiva di carnevali e festività della montagna occitana” (proiezioni e commenti) nonché un momento di confronto sul tema della valorizzazione della lingua Occitana (lingua di un territorio, ma non lingua nazionale) con la testimonianza di Giacomo Lombardo, sindaco di Ostana (CN). 

Durante questo terzo incontro, si sono precisati i termini di coinvolgimento del pubblico nell’esperienza enogastronomica: si è deciso di dividere e amplificare il momento esplicativo dei sapori tipici attraverso un racconto verbale e per immagini, che ha anticipato, nella sala conferenze, il vero e proprio momento conviviale nella sala delle ceramiche, massimizzando in questo modo l’attenzione e comprensione da parte dei partecipanti.

Il pomeriggio ha avuto come protagonisti Diego Anghilante, curatore per Bompiani de L’Opera Poetica Occitana di Antonio Bodrero, massimo poeta dell’Occitania italiana, nonché l’intervento della prof.ssa Fausta Garavini, sul tema della poesia occitana d’oltralpe.

Lido Riba, Uncem Piemonete, Carlo Pisano, presidente del consiglio comunale di Guardia Piemontese (CS), Roberto Colombero, sindaco di Canosio (CN), hanno animato una tavola rotonda molto suggestiva (grazie a filmati audio/video e la partecipazione di una figurante in costume tradizionale) sulla realtà del territorio occitano. Il vero catalizzatore dell’attenzione del pubblico è stato però Sergio Berardo, polistrumentista e cantante del gruppo occitano dei Lou Dalfin: una performance a metà tra una vera e propria lezione di storia della musica e un concerto vivace, coinvolgente, attraverso brani ed esempi realizzati con la ghironda, le cornamuse, i flauti e gli organetti.

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Occitani: tradizioni

Nelle valli occitane italiane numerosi comuni organizzano una cerimonia al momento della posa della bandiera occitana sugli edifici pubblici.

Un testo che spiega i motivi della cerimonia viene letto in occitano e in italiano, poi la bandiera viene alzata al suono di “Se Chanto”, una canzone popolare delle valli occitane del Piemonte che è ormai considerata l’inno occitano e che, con il simbolo della croce occitana e il suono della lingua compone i tratti più caratterizzanti dell’area della lingua d’oc.
Un'identità “viva”, che ha trovato nella lingua ma anche nei simboli la propria nuova forza: quei simboli come la bandiera, l'inno “Se Chanto”, la ghironda, il magico strumento utilizzato dai bardi e dai trovatori nelle corti di tutt'Europa.

La bandiera

La bandiera occitanaLe comunità occitane sono rappresentate dalla cosiddetta croce «occitana», risalente al regno di Raimondo V, derivata dello stemma gentilizio dei conti di Tolosa «de geules à la croix vidée, cléchée» (o croce patente e pomata d’oro). Sono state fatte diverse interpretazioni di questa croce, di cui molte insistono sull’aspetto «simbolico» del motivo. Secondo R. Camboulives (1980) le dodici piccole sfere potrebbero rappresentare le dodici case dello zodiaco. La bandiera è utilizzata per rappresentare la lingua e la cultura occitana, o più generalmente come emblema regionale. La croce di Tolosa è a volte accompagnata da una stella a sette punte, che rappresenta le regioni storiche dell’Occitania secondo il Félibrige. Il motivo di questa croce è utilizzato da alcune comunità territoriali, dell’antica contea di Tolosa, e lo si ritrova anche sulla segnaletica stradale.

La ghironda

Lo strumento musicale della ghirondaLa ghironda è uno strumento musicale a corde di origine medievale. Oggi è possibile ascoltare la ghironda in alcuni festival europei di musica folk, suonata spesso insieme a cornamuse, in particolare in Francia e in Ungheria. Alla base del funzionamento dello strumento c'è una ruota di legno, coperta di pece e azionata da una manovella, che sfrega le varie corde: i cantini, i bordoni e la trompette. I cantini, solitamente due posti nella parte centrale dello strumento, sono controllati da una tastiera cromatica e realizzano la melodia. I bordoni, posti vicino al piano armonico, producono un suono continuo: di solito la tonica ma a volte si usa la dominante. La corda della trompette, poggiando su un ponticello mobile detto anche «chien» (cane), produce invece un caratteristico suono ronzante. Tramite la complessa tecnica dei colpi di manovella, che sollecitano la corda della trompette, è possibile realizzare delle formule di accompagnamento ritmico (colpi di due, di tre o di quattro, regolari o irregolari). Dal 1982 si tiene annualmente a Pragelato (TO) la Festa della Ghironda, una manifestazione interamente dedicata allo strumento.

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Occitani: comunità e lingua

I dialetti occitani parlati in Italia appartengono alla sottovarietà del provenzale alpino: un patrimonio linguistico ricco di influenze territoriali, ma riconducibile ad un'unica matrice originale, costituita da quella lingua romanza, la “Lingua d'Oc”, che durante l'epoca medioevale toccò l'apice della propria diffusione. Chiamato così per l'uso della particella “oc” al posto dell'”oui” francese per dire “” , l'occitano ricopre un ruolo centrale nella relazione tra tutte le parlate latine in Europa.
L’Occitano è conosciuto anche come Patois (patuà) che in Lingua Francese significa “dialetto, parlata dei contadini, gergo”. In realtà il termine “patois” indica una parlata dialettale diversa dal Francese e pertanto può indicare diverse varianti linguistiche francesi e galloromanze.
In Valle d’Aosta e in Piemonte con il termine Patois (patouà, patuà, patoué) si indicano le varianti locali dell’Occitano e della Lingua Francoprovenzale.
L’Occitano è riconosciuto e tutelato dalla Legge 482 della Repubblica Italiana.

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Occitani: storia

La civiltà occitana si sviluppò nel medioevo, con una raffinata cultura che condizionò tutta l'Europa, e interessò il campo della letteratura e della musica.
All'inizio del XII secolo apparvero le poesie dei trovatori, il primo dei quali fu Guglielmo VII conte di Poitiers, chiamato, poi, Guglielmo IX duca di Aquitania. È ben noto quanto la nascente cultura italiana del XIII secolo, con Dante e la Scuola del dolce stil novo sia in debito con i trovatori occitani, la loro lirica ed la loro poetica.
Nei primi anni del 1200 una parte degli Occitani divenne eretica, aderendo in particolare alle comunità dei Càtari e dei Valdesi. Nei loro confronti il Papa ordinò una crociata (la crociata degli Albigesi), che durò molti anni e nella quale furono compiuti grandi massacri. In quella circostanza fu introdotto il francese come lingua di occupazione. Questa guerra produsse il declino socio-economico della Linguadoca, che portò l'Occitania a divenire una sorta di colonia della Francia.
A partire dal 1242 i trovatori lasciarono le corti occitaniche e si rifugiarono oltre le Alpi ed i Pirenei. Si interruppe così, nel XIII secolo, l'uso letterario della lingua d'oc.
Nel 1539, con l'editto di Villers-Cotterêts, almeno a livello ufficiale, l'occitano fu relegato al ruolo di dialetto locale, perdendo la caratteristica di lingua di cultura universalmente riconosciuta.
Anche i Savoia perseguitarono i Valdesi e, nel 1561, firmarono la Pace di Cavour, primo esempio di riconoscimento di una professione di fede diversa dalla cattolica, limitatamente alla Val Pellice, alla Val Germanasca ed al versante destro della media e bassa Val Chisone, dette Valli Valdesi.
Le persecuzioni dei Valdesi ripresero nei secoli XVII e XVII, ma le discriminazioni nei loro confronti cessarono soltanto nel 1848, sotto il regno di Carlo Alberto.

Cartello bilingue a Guardia PiemonteseUna particolarità della minoranza linguistica è rappresentata dal comune di Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza. In questo paese si raggrupparono i superstiti delle persecuzioni delle colonie valdesi di Bobbio Pellice (Torino). Lasciate le vallate piemontesi tra il 1300 ed il 1400, si insediarono in Calabria, dove vissero in pace per oltre tre secoli, dedicandosi all'agricoltura, alla pastorizia, curando la coltivazione di uliveti, di vigneti, del cotone, della canapa, di allevamenti di bachi da seta e ovini per la lana. Ma quando, nel XVI secolo, aderirono alla Riforma protestante, furono soggetti alle violente repressioni da parte dell’Inquisizione, tanto che la popolazione fu praticamente decimata. I pochi sopravvissuti furono sottoposti a pene severe e diverse imposizioni, fra cui il divieto di parlare il loro dialetto, la lingua occitana. Nonostante i forti condizionamenti subiti, oggi Guardia Piemontese (La Gàrdia), e in minor misura San Sisto dei Valdesi, fra tutti gli altri insediamenti di origine valdese, operano per mantenere viva la loro identità, che si traduce soprattutto nella sopravvivenza dell'antica lingua occitana, e per conservare luoghi e costumi simbolo della loro storia.

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Croati del Molise: convegno

Convegno Gli Italiani dell'altrove: i Croati del Molise

Il 28 maggio 2013, presso il MAT - Museo nazionale delle Arti e Tradizioni popolari in p.zza G. Marconi 8 a Roma, si è tenuto il secondo incontro del ciclo Gli Italiani dell'Altrove: i Croati del Molise.
Il convegno è stato aperto con i saluti del Segretario Generale del Mibac, Antonia Pasqua Recchia che si è prodigata con particolare slancio per la riuscita del progetto, e di Damir Grubisa, l'ambasciatore croato in Italia e poi la direttrice dell'Idea Maura Picciau, il sovraintendente ai Beni Storici Artistici Etnoantropoligici del Molise Daniele Ferrara e il coordinatore scientifico del Mat Emilia De Simoni.
Nella prima parte della giornata i relatori hanno delineato le linee guida del progetto "Gli Italiani dell'altrove" e sottolineato l'importanza della minoranze linguistiche in Italia e nello specifico di quella croato-molisana. Successivamente il dibattito ha visto l'intervento di Snježana Hefti, editrice croata in Italia; Silvio Ferrari, scrittore e traduttore italo-croato; Emilia De Simoni, Giovanni Piccoli (studioso della minoranza linguistica Croato Molisana) e Vincenzo Lombardi (direttore della biblioteca provinciale "Albino" di Campobasso) con numerose testimonianze etnografiche, letture e proiezioni che hanno evidenziato la volontà dei Croati del Molise di mantenere viva la lingua e le tradizioni.
Per far conoscere anche la peculiarità enogastronomica della comunità croato-molisana, ai partecipanti è stato offerto un buffet con prodotti tipici dell'Azienda Agrituristica "Da Carlo" di San Felice del Molise.

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Croati del Molise: a tavola

Sono molte le pietanze di origine croata che ancora oggi si trovano sulle tavole dei molisani.
La zuppa d'agnello ai cevapcici, gli spiedini di carne alla griglia e la peca, piatto unico di mare o di terra che utilizza una tipica pentola di coccio o di ghisa a forma di una campana, per cucinare polipi, calamari e patate oppure carne d'agnello, cipolle, peperoni, conditi con vino e spezie.

E poi i tradizionali Perstasci, lasagne triangolari, fatte con farina di grano duro e le Kabasice, ovvero salsicce nostrane e salumi come ventricina e prsut.

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Croati del Molise: tradizioni

La manifestazione più popolare è la festa del Maja, a maggio, e consiste in un rito di auspicio per un prosperoso raccolto dei frutti della terra.
"u' maio" è l'uomo che indossa un grosso telaio conico con due braccia e una testa, addobbato con fronde, erbe, fiori e primizie, e gira per il paese, accompagnato dal suono dell'organetto e da cantori e un coro, seguito da una folla di gente.
Il corteo del Mája viene di tanto in tanto fermato da alcune famiglie che, in segno di gratitudine e per la propiziazione delle messi, offrono vino, pizze, salumi e formaggi.

Sopravvivono ancora, oltre al rito nuziale ed a quello funebre, anche i canti popolari di origine croata. Altro retaggio di un'antica istituzione slava, quella della "Zadruga" (la grande famiglia, patriarcale contrassegnata dalla proprietà comune) può essere ravvisato nella appartenenza di una intera contrada a una sola famiglia.

Costumi
L'abito femminile tradizionale di origine slava di Acquaviva Collecroce comprende la camicia bianca guarnita da colletto di pizzo, gonna di lana nera o verde scuro, liscia sul davanti, corpetto nero o ben chiuso davanti con stringhe incrociate, con maniche lunghe usate solo d'inverno, grembiule corto ornato con ricami, fazzoletto da testa orlato di pizzo, di lana grezza rettangolare, calze scure.
L'abito maschile è costituito dalla camicia bianca di tela pesante, lavorata a fitte piegoline sul petto, calzoni invernali di lana nera o blu, sotto il ginocchio con bottoni e sostenuti alla vita da una cintura rossa o viola. I calzoni estivi sono di canapa e la camiciola dello stesso tessuto dei pantaloni, a doppio petto, è usata solo nei giorni festivi. Le calze sono bianche con legacci multicolori, le uose di panno scuro chiuse da bottoni, cappello di feltro e mantello a ruota di lana scura.

Artigianato
Nei paesi di Montemitro, San Felice del Molise ed Acquaviva Collecroce si conserva, ancora oggi, la consuetudine della tessitura a mano, su telai di legno, per realizzare coperte, stuoie, panno grezzo e finissimi tovagliati che ripropongono l'originaria tradizione croata, affidata alla tipicità dei disegni e alla vivacità dei colori tramandati di generazione in generazione.

 

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Croati del Molise: comunità e lingua

L'idioma parlato dalla minoranza è sostanzialmente l'antica lingua croata del tipo štòkavo-ìkavo, in uso nella Dalmazia centrale, nel retroterra croato e in Erzegovina. Secondo alcuni studiosi, si tratta di un idioma conservato da circa 400 anni, con una fisionomia eminentemente pratica, appunto perché parlato in prevalenza da contadini.

L'antica lingua croata è, oggi, usata soprattutto nei rapporti familiari e nelle relazioni interpersonali. Essa è stata trasmessa per cinque secoli con la sola tradizione orale e non esistono infatti tracce di scritti, se si escludono alcune poesie.

La lingua croata in Italia è tutelata dalla legge n. 482 in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche.
In Molise conservano l'uso della lingua croata circa 1000 abitanti, in 3 comuni:

Localizzazione delle località di lingua croata in MoliseCAMPOBASSO
1 Acquaviva Collecroce Kruč o Živavoda Kruč
2 Montemitro Mundimitare
3 San Felice del Molise Štifilić o Filič

 

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Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
Metro Linea B (EUR Fermi) Bus 30 Express, 170, 671, 703, 707, 714, 762, 765, 791
Amministrazione
trasparente

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