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Articoli filtrati per data: Marzo 2014

Occitani: storia

La civiltà occitana si sviluppò nel medioevo, con una raffinata cultura che condizionò tutta l'Europa, e interessò il campo della letteratura e della musica.
All'inizio del XII secolo apparvero le poesie dei trovatori, il primo dei quali fu Guglielmo VII conte di Poitiers, chiamato, poi, Guglielmo IX duca di Aquitania. È ben noto quanto la nascente cultura italiana del XIII secolo, con Dante e la Scuola del dolce stil novo sia in debito con i trovatori occitani, la loro lirica ed la loro poetica.
Nei primi anni del 1200 una parte degli Occitani divenne eretica, aderendo in particolare alle comunità dei Càtari e dei Valdesi. Nei loro confronti il Papa ordinò una crociata (la crociata degli Albigesi), che durò molti anni e nella quale furono compiuti grandi massacri. In quella circostanza fu introdotto il francese come lingua di occupazione. Questa guerra produsse il declino socio-economico della Linguadoca, che portò l'Occitania a divenire una sorta di colonia della Francia.
A partire dal 1242 i trovatori lasciarono le corti occitaniche e si rifugiarono oltre le Alpi ed i Pirenei. Si interruppe così, nel XIII secolo, l'uso letterario della lingua d'oc.
Nel 1539, con l'editto di Villers-Cotterêts, almeno a livello ufficiale, l'occitano fu relegato al ruolo di dialetto locale, perdendo la caratteristica di lingua di cultura universalmente riconosciuta.
Anche i Savoia perseguitarono i Valdesi e, nel 1561, firmarono la Pace di Cavour, primo esempio di riconoscimento di una professione di fede diversa dalla cattolica, limitatamente alla Val Pellice, alla Val Germanasca ed al versante destro della media e bassa Val Chisone, dette Valli Valdesi.
Le persecuzioni dei Valdesi ripresero nei secoli XVII e XVII, ma le discriminazioni nei loro confronti cessarono soltanto nel 1848, sotto il regno di Carlo Alberto.

Cartello bilingue a Guardia PiemonteseUna particolarità della minoranza linguistica è rappresentata dal comune di Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza. In questo paese si raggrupparono i superstiti delle persecuzioni delle colonie valdesi di Bobbio Pellice (Torino). Lasciate le vallate piemontesi tra il 1300 ed il 1400, si insediarono in Calabria, dove vissero in pace per oltre tre secoli, dedicandosi all'agricoltura, alla pastorizia, curando la coltivazione di uliveti, di vigneti, del cotone, della canapa, di allevamenti di bachi da seta e ovini per la lana. Ma quando, nel XVI secolo, aderirono alla Riforma protestante, furono soggetti alle violente repressioni da parte dell’Inquisizione, tanto che la popolazione fu praticamente decimata. I pochi sopravvissuti furono sottoposti a pene severe e diverse imposizioni, fra cui il divieto di parlare il loro dialetto, la lingua occitana. Nonostante i forti condizionamenti subiti, oggi Guardia Piemontese (La Gàrdia), e in minor misura San Sisto dei Valdesi, fra tutti gli altri insediamenti di origine valdese, operano per mantenere viva la loro identità, che si traduce soprattutto nella sopravvivenza dell'antica lingua occitana, e per conservare luoghi e costumi simbolo della loro storia.

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Occitani: comunità e lingua

I dialetti occitani parlati in Italia appartengono alla sottovarietà del provenzale alpino: un patrimonio linguistico ricco di influenze territoriali, ma riconducibile ad un'unica matrice originale, costituita da quella lingua romanza, la “Lingua d'Oc”, che durante l'epoca medioevale toccò l'apice della propria diffusione. Chiamato così per l'uso della particella “oc” al posto dell'”oui” francese per dire “” , l'occitano ricopre un ruolo centrale nella relazione tra tutte le parlate latine in Europa.
L’Occitano è conosciuto anche come Patois (patuà) che in Lingua Francese significa “dialetto, parlata dei contadini, gergo”. In realtà il termine “patois” indica una parlata dialettale diversa dal Francese e pertanto può indicare diverse varianti linguistiche francesi e galloromanze.
In Valle d’Aosta e in Piemonte con il termine Patois (patouà, patuà, patoué) si indicano le varianti locali dell’Occitano e della Lingua Francoprovenzale.
L’Occitano è riconosciuto e tutelato dalla Legge 482 della Repubblica Italiana.

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Occitani: tradizioni

Nelle valli occitane italiane numerosi comuni organizzano una cerimonia al momento della posa della bandiera occitana sugli edifici pubblici.

Un testo che spiega i motivi della cerimonia viene letto in occitano e in italiano, poi la bandiera viene alzata al suono di “Se Chanto”, una canzone popolare delle valli occitane del Piemonte che è ormai considerata l’inno occitano e che, con il simbolo della croce occitana e il suono della lingua compone i tratti più caratterizzanti dell’area della lingua d’oc.
Un'identità “viva”, che ha trovato nella lingua ma anche nei simboli la propria nuova forza: quei simboli come la bandiera, l'inno “Se Chanto”, la ghironda, il magico strumento utilizzato dai bardi e dai trovatori nelle corti di tutt'Europa.

La bandiera

La bandiera occitanaLe comunità occitane sono rappresentate dalla cosiddetta croce «occitana», risalente al regno di Raimondo V, derivata dello stemma gentilizio dei conti di Tolosa «de geules à la croix vidée, cléchée» (o croce patente e pomata d’oro). Sono state fatte diverse interpretazioni di questa croce, di cui molte insistono sull’aspetto «simbolico» del motivo. Secondo R. Camboulives (1980) le dodici piccole sfere potrebbero rappresentare le dodici case dello zodiaco. La bandiera è utilizzata per rappresentare la lingua e la cultura occitana, o più generalmente come emblema regionale. La croce di Tolosa è a volte accompagnata da una stella a sette punte, che rappresenta le regioni storiche dell’Occitania secondo il Félibrige. Il motivo di questa croce è utilizzato da alcune comunità territoriali, dell’antica contea di Tolosa, e lo si ritrova anche sulla segnaletica stradale.

La ghironda

Lo strumento musicale della ghirondaLa ghironda è uno strumento musicale a corde di origine medievale. Oggi è possibile ascoltare la ghironda in alcuni festival europei di musica folk, suonata spesso insieme a cornamuse, in particolare in Francia e in Ungheria. Alla base del funzionamento dello strumento c'è una ruota di legno, coperta di pece e azionata da una manovella, che sfrega le varie corde: i cantini, i bordoni e la trompette. I cantini, solitamente due posti nella parte centrale dello strumento, sono controllati da una tastiera cromatica e realizzano la melodia. I bordoni, posti vicino al piano armonico, producono un suono continuo: di solito la tonica ma a volte si usa la dominante. La corda della trompette, poggiando su un ponticello mobile detto anche «chien» (cane), produce invece un caratteristico suono ronzante. Tramite la complessa tecnica dei colpi di manovella, che sollecitano la corda della trompette, è possibile realizzare delle formule di accompagnamento ritmico (colpi di due, di tre o di quattro, regolari o irregolari). Dal 1982 si tiene annualmente a Pragelato (TO) la Festa della Ghironda, una manifestazione interamente dedicata allo strumento.

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Occitani: convegno

La terza giornata del ciclo Gli Italiani dell’altrove, gli Occitani, è stata organizzata con la stretta collaborazione del prof. Piercarlo Grimaldi, Rettore dell’Università del Gusto di Pollenzo - Slow Food (UNISG) - anche nella sua particolare qualità di etnoantropologo esperto della tematica e del territorio, e dal prof. Davide Porporato dell'Università del Piemonte Orientale.

La giornata, dopo il saluto istituzionale (Anna Conticello Segreteria MiBACT, Maura Picciau, Direttore IDEA, Piercarlo Grimaldi, Rettore UNISG, Emilia De Simoni MAT, Fabienne Rondelli, Ambasciata di Francia in Italia) ha offerto un vivace racconto di “Antropologia visiva di carnevali e festività della montagna occitana” (proiezioni e commenti) nonché un momento di confronto sul tema della valorizzazione della lingua Occitana (lingua di un territorio, ma non lingua nazionale) con la testimonianza di Giacomo Lombardo, sindaco di Ostana (CN). 

Durante questo terzo incontro, si sono precisati i termini di coinvolgimento del pubblico nell’esperienza enogastronomica: si è deciso di dividere e amplificare il momento esplicativo dei sapori tipici attraverso un racconto verbale e per immagini, che ha anticipato, nella sala conferenze, il vero e proprio momento conviviale nella sala delle ceramiche, massimizzando in questo modo l’attenzione e comprensione da parte dei partecipanti.

Il pomeriggio ha avuto come protagonisti Diego Anghilante, curatore per Bompiani de L’Opera Poetica Occitana di Antonio Bodrero, massimo poeta dell’Occitania italiana, nonché l’intervento della prof.ssa Fausta Garavini, sul tema della poesia occitana d’oltralpe.

Lido Riba, Uncem Piemonete, Carlo Pisano, presidente del consiglio comunale di Guardia Piemontese (CS), Roberto Colombero, sindaco di Canosio (CN), hanno animato una tavola rotonda molto suggestiva (grazie a filmati audio/video e la partecipazione di una figurante in costume tradizionale) sulla realtà del territorio occitano. Il vero catalizzatore dell’attenzione del pubblico è stato però Sergio Berardo, polistrumentista e cantante del gruppo occitano dei Lou Dalfin: una performance a metà tra una vera e propria lezione di storia della musica e un concerto vivace, coinvolgente, attraverso brani ed esempi realizzati con la ghironda, le cornamuse, i flauti e gli organetti.

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2002-2009

2001-2002 IL PRESEPE POPOLARE. LA COLLEZIONE STORICA DEI PASTORI NAPOLETANI

La mostra sul Presepe popolare e, in particolare sulla collezione di pastori napoletani del '700 e '800 conservati nel Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, rientra nel panorama espositivo attraverso il quale si intende far conoscere, nella loro completezza, alcune collezioni note solo parzialmente al pubblico. Il presepe napoletano storico, di proprietà del Museo, risale al 1911 quando, per l'Esposizione Internazionale tenutasi a Roma nello stesso anno, vennero allestiti sotto la direzione di Lamberto Loria (1855-1913), all'interno della Mostra di Etnografia Italiana, due presepi napoletani. Il "presepe", termine che significa capanna o mangiatoia, con riferimento alla greppia dove, secondo la tradizione evangelica, nacque o fu deposto Gesù, diventa nel tempo la ricostruzione convenzionale, mediante statuette ed elementi scenografici per lo più mobili, dei luoghi in cui nacque Gesù. I presepi, in quanto composizioni plastiche formate oltre che dalla Sacra Famiglia da un numero variabile di personaggi, con fondali più o meno ricchi, nascono con funzione devozionale nelle chiese, ma finiscono per diventare oggetto di culto privato nelle case. Si diffondono col tempo vere e proprie scuole presepiali, con temi, stili, tecniche, figure suggerite dalla fantasia e dall'inventiva degli autori. Nell'ambito della mostra si possono visitare, nel rinnovato allestimento della Sala del Ciclo della Vita Umana, due presepi: uno ricostruito con le figure presepiali dell'Esposizione Universale del 1911 e l'altro con le figure napoletane del '700 e dell' '800 acquisite nel 1999. Le scenografie dei due presepi sono state realizzate dal paziente lavoro di Nicola Maciariello. Nel primo sono collocati oltre 200 tra pastori e finimenti della collezione storica del Museo. Nel secondo viene presentato l'importante donativo di Mario e Laura Verduzio, costituito da 178 pezzi relativi a un presepe napoletano del '700.
Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (19 dicembre 2001 - 30 settembre 2002)


2002 DAL MASSO ALLA FORMA VIVA. IL MARMO DI CARRARA ATTRAVERSO LE IMMAGINI DI ILARIO BESSI

La mostra fotografica, promossa dal Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari con il Club Unesco Carrara dei Marmi, ha privilegiato la fotografia storica quale oggetto etnografico in sé ed ha capovolto l'impiego della fotografia come documentazione dell'oggetto decontestualizzato utilizzando, invece, la lizza, lunga slitta di pali di legno – donata dalla Scuola del Marmo di Carrara e dal Comitato dei Lizzatori al Museo – come oggetto/simbolo, pretesto del discorso narrativo volto a valorizzare il lavoro dei cavatori e dei lizzatori quale strumento di costruzione dell'identità locale. Obiettivo della mostra è far conoscere e valorizzare il lavoro operaio condotto nelle cave del marmo delle Alpi Apuane, nel periodo compreso fra il 1920-1930 e il 1940-1955, attraverso le immagini fotografiche scattate dal fotografo Ilario Bessi (1903-1986).
Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (8 febbraio - 19 aprile 2002)


2002 LA MACEDONIA ATTRAVERSO LE TRADIZIONI FESTIVE E QUOTIDIANE
Mostra fotografica dedicata alle feste ed ai rituali pubblici e privati della Macedonia. La Mostra è costituita da circa 75 immagini fotografiche, che risalgono per lo più agli anni '50, che mostrano usi e consuetudini ancora pienamente praticate in quegli anni ed in alcuni casi perduranti fino ad oggi. E' esposto anche un limitato numero di oggetti legati alle varie occasioni cerimoniali macedoni. L'iniziativa è promossa dal Museo di Macedonia – Shopje e il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. Le immagini raffigurano momenti e fasi di alcuni importanti usi cerimoniali macedoni, per lo più legati al ciclo calendariale o ai riti di passaggio nel ciclo della vita umana. Il pubblico può assistere alla proiezione di alcuni filmati sul tema cerimoniale realizzati negli anni '50 dal Museo di Macedonia. L'iniziativa si inserisce in una serie di mostre fotografiche che il Museo ha allestito negli ultimi anni, riguardanti diversi aspetti o eventi di interesse etnografico presentati al pubblico attraverso il mezzo fotografico, anziché attraverso gli oggetti della cultura materiale o dell'arte folklorica.
Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (24 maggio - 22 settembre 2002)


2002 LE IMMAGINI DELLA FANTASIA. MOSTRA INTERNAZIONALE D'ILLUSTRAZIONE PER L'INFANZIA

Il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari ospita per la seconda volta a Roma, in occasione della Giornata Internazionale dei Diritti dell'Infanzia, "LE IMMAGINI DELLA FANTASIA" della Fondazione del Comune di Sàrmede, provincia di Treviso. La mostra curata dal gruppo "RomaInsieme" – Centro Turistico Giovanile, in collaborazione con il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari e con l'Assessorato alle Politiche di promozione dell'Infanzia e della Famiglia del Comune di Roma. L'esposizione dà visibilità ai linguaggi dell'illustrazione infantile: tutti gli autori si ispirano al repertorio universale dei racconti e dei miti. Per questa XIX edizione, ospitata come quella dello scorso anno presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, sono presenti 40 artisti provenienti da ventidue paesi. Messico, Brasile, Giappone, USA, Africa de Sud, sono alcuni dei paesi rappresentati in questo ventaglio eccezionale di immagini che testimoniano l'impegno costante degli organizzatori volto a presentare sempre nuove culture ed espressioni artistiche originali. La mostra e il catalogo si propongono dunque, come strumenti di conoscenza e di valorizzazione di ciò che viene prodotto di anno in anno in questo campo a livello mondiale. L'edizione del 2002 è dedicata a Pinocchio, il burattino più discolo di tutti i discoli, al quale è stata riservata un'intera sezione della Mostra.


2002-2003 IL VOLO DELLO SCIAMANO. SIMBOLI ED ARTE DELLE CULTURE SIBERIANE

L'Esposizione affronta il tema dello sciamanesimo siberiano. Caffettani, idoli, divinità magico-religiose, tamburi, raffigurazioni degli spiriti adiutori degli sciamani sono oggetti testimoni di un altro mondo che si intende esplorare e su cui riflettere. La mostra è il frutto dell'accordo culturale stipulato nel 1999 tra lo Stato Italiano e la Confederazione Russa. La gran parte dei materiali proviene dal Russian Museum of Ethnography di San Pietroburgo, una delle più grandi collezioni di opere – datate tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo – appartenenti ai popoli siberiani coinvolti nel complesso mondo sciamanico che lega la magia alla religione. Quale omaggio ai viaggiatori ed esploratori dell'Ottocento italiano sono in mostra gli oggetti raccolti da Stephen Sommier (1848-1922) nella Siberia Occidentale nel 1883 conservati al Museo di Antropologia e Etnologia di Firenze. "Siberia", vuol dire terra meravigliosa, un paese delle meraviglie, con grandi catene montuose e colline dorate, caleidoscopio odierno di etnie, tradizioni, religioni. La Siberia è conosciuta anche come terra delle aquile, luogo di nascita ed elezione del primo sciamano. A partire dalla fine del Settecento, il termine stesso di sciamano saman, che proviene dalla lingua di un popolo alcaico, sta a designare il protagonista assoluto delle cerimonie religiose e dei riti di guarigione. La mostra è stata organizzata in tematiche fondamentali: l'ambiente, la figura dello sciamano con i suoi caffettani e accessori, usati durante le sedute di guarigione e nei viaggi o voli da lui compiuti attraverso l'axis-mundi e simboleggiati dall'albero fissato al centro dello spazio sacro riservato al rituale sciamanico. L'esposizione, volendo anche mettere in relazione tali fenomeni magico-religiosi con quelli presenti nella nostra cultura, è accompagnata dalla documentazione fotografica originale – datata tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento – che proviene dagli Archivi Fotografici Storici del Russian Museum of Ethnography e dal Museo di Antropologia e Etnologia di Firenze. In occasione dell'esposizione sono presentati alcuni filmati, girati tra il 1994 e il 1996, sulle culture sciamaniche siberiane dell'Istituto Etnografico di Nuoro e quelli concessi da Rai Educational, per la regia di Giorgio de Finis, oltre ai documentari di Miháli Hoppál Shamanism. Past and Present (1994) e di Lajos Nádorfi e Miháli Hoppál The land of the Shaman (1996).
Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (28 novembre 2002 - 26 maggio 2003)


2003 EMERGENZE UMANITARIE "LE CRISI DIMENTICATE"

L'esposizione è costituita da 40 immagini scattate da Javier Teniente tra il 1998 e il 1999 in Mauritania, in Honduras, durante il disastro naturale dell'uragano Mitch, in Kosovo e a Timor e da quattro pannelli fotografici, di autori diversi,che illustrano l'impegno di Medici del Mondo in Ecuador. La Mostra è in collaborazione con la Fundacion para el Arte y Cultura en el Ecuador, nata nel 1979 e con l'Associazione di Solidarietà Medici del Mondo Italia, Sezione centrosud. La Fondazione ha come obiettivi la conoscenza e la diffusione della cultura ecuadoriana e dell'America Latina. È stata impegnata in diversi eventi culturali a Roma ed attualmente ha in progetto la realizzazione di un Centro Pilota in Guayaquil per accogliere i bambini di strada, recuperandoli attraverso l'arte-terapia. L'Associazione di Solidarietà Internazionale Medici del Mondo è nata nel 1980 in Francia ed è composta da 12 delegazioni nazionali. Si caratterizza per la vocazione alla cura delle popolazioni vulnerabili nelle situazioni di crisi mondiale; alla promozione dell'impegno volontario di medici, di operatori professionisti nel settore della salute, di cittadini e di altri professionisti interessati al sostegno umanitario nei territori di crisi; all'assicurazione dell'impiego di tutte le competenze necessarie all'assolvimento dei suoi obiettivi; alla predilezione del rapporto di cooperazione con le comunità locali. In totale indipendenza della loro pratica medica, Medici del Mondo rivela i rischi di crisi e le minacce alla salute e alla dignità per contribuire alla loro prevenzione; ricerca la cooperazione di altri partner per azioni di solidarietà anche fuori dall'area strettamente legata alla salute; denuncia con un'azione di testimonianza le violazioni dei diritti umani, ed in particolare, gli ostacoli all'accesso alla salute; sviluppa nuovi approcci e nuove pratiche di salute pubblica nel mondo, fondati sul rispetto della dignità umana; s'impegna nelle operazioni di trasparenza con i propri sostenitori; milita affinché venga istituita l'etica della medicina umanitaria. Le 40 immagini fotografiche sono di Javier Teniente, fotografo di Vigo, Galizia, impegnato da anni nella documentazione delle condizioni delle popolazioni emarginate e colpite da eventi bellici. La sua opera rappresenta la tragica quotidianità di un'umanità esclusa, vittima dei disastri naturali, di epidemie, della fame, di ingiustizie sociali, di conflitti armati, della violenza politica e del razzismo. L'Esposizione al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari è accompagnata da cinque documenti video girati da operatori di Medici del Mondo in Cecenia, Afganistan, Repubblica democratica del Congo ed Ecuador.


2003-2004 ANNABELLA ROSSI E LA FOTOGRAFIA. VENT'ANNI DI RICERCA VISIVA NEL SALENTO E IN CAMPANIA

Mostra in collaborazione con l'Università di Salerno, Cattedra di Antropologia Culturale. L'esposizione è costituita da 87 immagini scattate da Annabella Rossi tra il 1959 e il 1976 in occasione delle sue ricerche di campo a Ruffano (Lecce), nel Salento, a Nardò (Lecce), a Montesanto (Lecce), a Galatina (Lecce) e a Templata, frazione di Albanella nel salernitano. Annabella Rossi (1933-1984) iniziò a lavorare al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari negli anni Sessanta del Novecento occupandosi, in particolare, delle ricerca e catalogazione delle forme di religiosità popolare. Nell'estate del 1959 partecipa alla ricerca di campo nel Salento, promossa dall'etnologo Ernesto de Martino sul tema del tarantismo, istituto magico-religioso di possessione radicatosi nel Salento da epoca pre-romana. Questa circostanza ha costituito per Annabella Rossi un momento formativo fondamentale per la sua attività di antropologa. Reclutata nella ricerca come intervistatrice, presto iniziò a fotografare il Salento, confermandosi tra i primi antropologi italiani, in particolare, donna, ad usare la macchina fotografica come ausilio nel lavoro di campo. Fotografa la parte più segreta di questa terra, la piega profonda che spesso si trova nel fondo dell'anima di un individuo, così come di una comunità.
Salerno, Lecce, Roma, Napoli (maggio 2003 - aprile 2004)


2003-2004 LA CERAMICA DI GROTTAGLIE OVVERO L'IMPORTANZA DELLA TRADIZIONE

La mostra presenta al pubblico circa 130 manufatti dall'Ottocento ad oggi e analizza il mondo della produzione ceramica di Grottaglie - centro di tradizione secolare nel campo dell'arte di plasmare la creta - nel contesto della produzione artigianale tradizionale e artistica pugliese. Tale produzione, in ambito nazionale, può vantare una continuità produttiva unica e costituisce un'irripetibile singolarità: a partire dal XVI secolo la produzione ceramica viene effettuata nelle abitazioni in grotta di una delle tante Lame (Lama di S. Giorgio), adibite pian piano esclusivamente a laboratorio, che hanno dato vita nel corso del tempo a quell'unicum urbanistico costituito dall'attuale, caratteristico, "Quartiere delle ceramiche". Un patrimonio interessantissimo che questa esposizione intende promuovere a sostegno di questo particolare settore produttivo proprio degli artigiani, che nel rispetto dei valori della tradizione locale hanno dato nuovo impulso e vigore alla creatività, contribuendo notevolmente al riconoscimento della città di Grottaglie, quale centro di antica produzione ceramica, degna di essere inserita a pieno titolo nel novero dei 25 centri nazionali, tutelati dal marchio DOC per la "ceramica artistica e tradizionale". Accanto ai manufatti di creta sono esposti anche esempi di artigianato tessile (cinque tra costumi femminili e maschili) e quelli di produzione orafa (ventidue tra gioielli e ornamenti). Il percorso espositivo presenta un andamento a cerchi concentrici dall'interno verso l'esterno, offrendo una lettura degli oggetti, analizzati nel loro valore simbolico e in quello pratico-funzionale. Oggetti antichi e moderni sono posti a confronto per segnalare le differenti tecniche costruttive, i materiali, le diversificate funzioni, ma soprattutto per identificare la varietà delle scuole e dei maestri artigiani attivi nella contemporaneità. Sono presenti nella esposizione le opere delle seguenti botteghe: Bottega "Ceramiche Domenico Caretta" di Caretta Pietro; Bottega "Ceramiche d'Arte" Carriero Carmelo; Bottega "La Ceramica Vincenzo Del Monaco" di Giuseppe Del Monaco; Bottega Francesco Fasano; Bottega Nicola Fasano; Bottega Oronzo Mastro; Bottega Domenico Pinto; Bottega Vestita, e la "Manifattura Ceramica Grottagliese". A corredo della mostra, nella Sala Fotografica viene proposta una panoramica di immagini, realizzate dal fotografo grottagliese Giovanni De Vincentis, che documentano la produzione ceramica sin dagli anni '50. Questo patrimonio di straordinario interesse andrà ad arricchire l'archivio fotografico del Museo.
Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (26 novembre 2003 - 30 giugno 2004)


2005 INCANTATI DALLA BELLEZZA DELLA TRADIZIONE

La mostra "Incantati dalla bellezza della Tradizione" rappresenta il secondo appuntamento con le più significative espressioni dell'arte e della cultura slovacche. Organizzata secondo nuclei tematici legati al gioiello d'argento, all'abito e ai suoi accessori, l'esposizione presenta complessivamente circa 100 manufatti antichi e contemporanei di raro pregio esecutivo. Nel contesto della mostra, inoltre, uno spazio rilevante alle fotografie di Karol Plicka (Vienna 14.10.1894 - Praga 6.5.1987), autore straordinario non soltanto per la sua profusione, ma soprattutto per la molteplicità dei suoi generi. Plicka nel corso della sua vita ha prodotto, oltre ad un numero considerevole di fotografie, circa cento pubblicazioni letterarie, sessantamila registrazioni originali di canti popolari, decine di migliaia di negativi e diapositive, nonché innumerevoli metri di pellicola cinematografica.
Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (10 febbraio - 3 aprile 2005)


2005 COSTUMI. GLI ABITI SARDI DELL'ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE DI ROMA DEL 1911

Mostra realizzata in collaborazione con l'Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro. L'abito costituisce, tra le testimonianze etnografiche, il documento più idoneo ad interpretare e conoscere la nostra storia e la nostra cultura perché è strettamente connesso al contesto sociale e culturale in cui nasce, da questa consapevolezza la scelta della realizzazione di questa esposizione, che presenta gli abiti tradizionali e gli ornamenti esposti in occasione della Mostra di Etnografia del 1911 nell'ambito dell'Esposizione Internazionale, organizzata dall'etnologo Lamberto Loria (1855-1913) nel contesto dei festeggiamenti tenutasi a Roma per il primo cinquantenario dell'Unità d'Italia. I settanta abiti esposti assieme ad oltre cento oggetti di oreficeria, che testimoniano le tipologie vestimentarie nel periodo compreso tra Ottocento e Novecento, colpiscono per la notevole ricchezza delle varianti legate alla festa, alla quotidianità e al lutto e date dalla combinazione creativa di tessuti, tecniche, colori e ornamenti. Gli ori, strettamente connessi alla foggia degli abiti, sorprendono per la notevole ricchezza dei buttones usati per camicie, giubbetti e panciotti, e delle catene e fibbie indispensabili per allacciare alcune parti del costume, come il grembiule e il corpetto, oppure fermare il copricapo. Alla base della Mostra c'è un'idea particolarmente suggestiva: presentare, oggi, gli abiti tradizionali che la Sardegna aveva inviato a Roma per l'Esposizione del 1911. Un'idea di crocevia di tante storie, dell'Italia e delle Regioni, della nascita del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari e dei tanti Musei della Vita e delle Tradizioni Popolari, che godono oggi del rinnovato interesse per i beni etnoantropologici. Le grandi Esposizioni, nazionali ed internazionali, della seconda metà del XIX secolo e dei primi decenni del XX hanno riservato al costume una particolare attenzione. Nel generale contesto di raccolta etnografica, focalizzata sul "tradizionale" e sull'"autentico", i costumi "antichi" delle diverse località regionali dovevano essere raccolti in via preferenziale, proprio per le caratteristiche identitarie.
Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (18 maggio - 18 settembre 2005)


2005-2006 SIVIGLIA AGO E ORO. SPLENDORI E ARTE DEL RICAMO

Mostra realizzata in collaborazione con la Società d'Arte di Siviglia, sotto l'alto patronato della Commissione Pontificia per i Beni Culturali e con il patrocinio della Junta de Andalucia. L'esposizione di circa 100 manufatti ricamati in oro e in argento consente di individuare i temi fondamentali della mostra, articolata per sezioni che illustrano la storia e l'evoluzione professionale dei ricamatori sivigliani; i supporti, le tecniche e i materiali utilizzati; la trasformazione dei decori ricamati sui tessuti; la produzione in relazione alle corporazioni, ai laboratori e ai disegnatori; la tipologia e il simbolismo delle opere ricamate. La mostra si svolge su una superficie di circa 1530 mq. secondo un itinerario didattico e interattivo suddiviso in aree tematiche specifiche: arte ed artigiani, bajo palio, il fulcro dello sguardo, la processione biblica, la immagine adorna, la ricostruzione di una strada di Siviglia e la messa in scena. Il visitatore, grazie alla suggestiva scenografia e alle proiezioni audiovisive ha la possibilità di essere partecipe di tutto il processo: conoscerà l'origine del ricamo ed il suo sviluppo (la storia); come si elabora (materiali e tecniche); il significato iconografico e simbolico sia dei singoli particolari sia degli elementi che si fondono nel ricamo; come si compongono i vari elementi per formare le sfilate delle confraternite ed ovviamente il contesto della processione, il ruolo delle confraternite, il sentimento religioso, i vari passaggi, i rituali. Il percorso infrange la concezione tradizionale della cultura storica delle esposizioni, orientandola in un processo di ricostruzione fatto di esperienza, ricerca e tecnica, che si arricchisce di argomenti e metodi attraverso il ricorso a discipline diverse, aperte ai fenomeni sociali, storici e antropologici, in grado di attivare uno stretto legame con la tradizione.
Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (11 ottobre 2005 - 15 gennaio 2006)


2007 VOLTI DEL GIAPPONE

La mostra fotografica ha presentato al pubblico circa 100 immagini di volti e aspetti della società giapponese, nelle quali viene evidenziato l'apparente contrasto tra tradizione e modernità. La mostra è stata realizzata con il patrocinio della Fondazione Italia-Giappone e con la partecipazione della Facoltà di Antropologia dell'Università "La Sapienza" di Roma, dell'Istituto di Cultura Giapponese, dell'Ambasciata del Giappone in Italia e della Facoltà di Arti Orientali dell'Università "La Sapienza di Roma".
Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (12 aprile - 3 maggio 2007)


2009 ABITI. RACCONTI DELLA TRADIZIONE VALDOSTANA CON LE IMMAGINI DI ANTONIO NOVENA (1931-2003)

In accordo con l'Assessorato alla Cultura del Comune di Roma e l'Assessorato dell'Istruzione e Cultura della Valle D'Aosta è stata inaugurata il 25 maggio 2009 nella sede del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari la mostra "Abiti. Racconti della tradizione valdostana con le immagini di Antonio Novena (1931-2003)". L'abbigliarsi è uno dei temi centrali della ricerca etnografica condotta dal Museo - oggi parte del nuovo Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia - che nell'ultimo decennio ha dedicato a questo tema un'attenzione particolare attraverso esposizioni ad esso dedicate. È stato infatti il lavoro capillare compiuto sul patrimonio, via via sedimentato e sistematicamente ordinato, che ha permesso di presentare in mostra e in catalogo una significativa campionatura della raccolta di abiti e ori della Valle D'Aosta (383 pezzi) che fanno parte dell'eccezionale collezione conservata nella sede dell'EUR, composta da oltre 1000 abiti tradizionali della fine dell'Ottocento e dei primi del Novecento. Collezione formatasi per iniziativa dell'etnologo Lamberto Loria (1855-1913) in occasione della Mostra dell'Etnografia Italiana tenutasi nell'ambito dell'Esposizione Internazionale del 1911 per il cinquantenario dell'Unità d'Italia.
Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (26 maggio - 25 ottobre 2009)

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Trasporto effettuato dall'uomo

Il trasporto diretto dei carichi da parte dell'uomo, uno dei sistemi più antichi, è stato praticato ancor prima della domesticazione degli animali e dell'introduzione della ruota. Gli attrezzi esposti documentano tale sistema effettuato, nell'ambito delle attività agro-pastorali, dall'uomo servendosi della varie parti del suo corpo: testa, nuca, spalle dorso, braccio, mani.

Oltre al cercine, fatto di stoffa o fibre vegetali a ciambella, con cui le donne proteggevano la testa nel trasportare carichi pesanti e duri (brocche colme d'acqua, fascine di legna ecc.) e alla bisaccia da spalla, largamente diffusi presso i contadini dell'Italia centro-meridionale, sono presentati esemplari di attrezzi che caratterizzano i sistemi di trasporto sul dorso nelle regioni dell'arco alpino.

Tra questi sono da segnalare il bilanciere da spalla, generalmente usato nel trasporto dell'acqua in secchi, ma anche per portare latte, siero e zolfo, contenuti in appositi recipienti; le gerle, ceste di forma tronco-conica a intreccio fitto o rado, tipiche delle zone alpine, usate per fieno, letame, prodotti della terra, per il trasporto di grosse caldaie, del bucato, dei bambini; i telai portafieno e le cadréghe, particolari telai di legno, appositamente studiati nelle loro varietà strutturali - aste disposte ad angolo acuto, mensole - per il trasporto di fieno, legna, latte e formaggi.

Di particolare interesse i barioni, due bastoni in mezzo ai quali viene fatta passare una corda più volte fino a formare un ordito in altri casi una rete, usati per trasportare la paglia o materiale consimile. Il loro carico, che assume forma cilindrica accostando i due bastoni, se non è di peso eccessivo, può essere trasportato da un uomo, altrimenti può essere caricato su slitta o animale da soma. Il sistema di trasporto praticato a più mani, da due persone, è documentato, nelle collezioni del Museo da un solo attrezzo: la barella. Usata generalmente per pietre, terra, reti di pescatori, era invece adoperata, nella tipologia rappresentata - a cesta -, soprattutto per trasportare il letame dalla stalla al letamaio, più raramente dal letamaio al campo.

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Trasporto con animali da soma

Il trasporto mediante animale da soma, sistema più frequentemente adottato nell'Italia centro-meridionale, è documentato da basti e da attrezzi da fissare al basto stesso. Sono esposti uncini o telai di legno, sacchi, ceste, mastelli con fondo ribaltabile per la fuoriuscita del materiale trasportato come pietre derivate dal dissodamento del terreno, letame per la concimazione dei campi.

La presenza degli animali come bestie da soma, prima ancora che da traino, è attestata in Asia occidentale nel IV millennio a.C., epoca in cui comincia ad apparire anche il cavallo domestico. Il trasporto effettuato con questi animali fu notevolmente migliorato dalla introduzione delle selle e dei basti che, documentati anch'essi per la prima volta in Asia, si diffondono poi in Europa, in modo particolare nelle regioni mediterranee.

L'uso del basto per someggiare, ovvero trasportare carichi su bestie da soma, si è conservato, in area italiana, fino a quando questi animali sono stati il mezzo di trasporto più rapido ed economico. Con il miglioramento della rete stradale e lo sviluppo e la diffusione dei mezzi motorizzati, questo sistema è andato lentamente scomparendo, anche se tuttora permane sporadicamente soprattutto nelle zone della montagna attraversate solo da mulattiere e in alcune aree interne del meridione. Il mulo, per la sua forza, resistenza, andatura, e in particolare per la sicurezza dei suoi piedi in montagna, risulta essere l'animale più adatto alla soma.

Il basto è una specie di sella che viene appoggiata sul dorso del mulo o dell'asino e fissata a questi per mezzo di corregge: poteva essere composto da una semplice bardella, un cuscino imbottito con o senza intelaiatura di legno all'interno o posto sopra due arcioni di legno: e infine da telaio di legno fisso con due arcioni collegati tra loro, talora da una parete di legno a volta. Il basto era costruito, in tutte le sue parti, dal bastaio, questi lo eseguiva spesso su ordinazione, riuscendo ad adattarlo meglio alla groppa dell'animale cui era destinato.

Complementari al basto e solidamente ancorati ai lati dello stesso, vi erano vari attrezzi, a coppia, diversificati per grandezza e per caratteristiche a seconda del carico: bisacce in tela, con telaio di legno, per portare i viveri in montagna e i latticini a valle oppure per il trasporto del letame, uncini per legna e covoni; intelaiature di legno per erba, bigonce per l'uva ed il vino, ceste per prodotti agricoli o letame, orci in cuoio per materiali liquidi, mastelli dal fondo rientrabile per il carico e lo scarico di pietre, letame, sabbia.

Particolare la struttura dei due mastelli di forma cilindrica, il cui fondo ribaltabile consentiva successivamente di scaricare senza fatica il materiale trasportato, come pietre derivate dal dissodamento del terreno, letame per la concimazione dei campi, sabbia e materiali da costruzione.

 

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Trasporto a trazione

Varie sono le modalità con cui il trasporto a trazione è operato dall'uomo, dagli animali, mediante veicoli muniti o privi di ruote. Il trascinamento è il tipo di trasporto più antico per carichi che l'uomo non è in grado di portare: un telone di fieno o un carico di legna può essere trascinato semplicemente mediante una corda, ma ci si può avvalere di attrezzi specifici come tregge e slitte.
Si definiscono convenzionalmente tregge gli attrezzi che lavorano obliquamente rispetto al terreno e slitte gli attrezzi con trascinamento aderente al terreno. La slitta era usata abitualmente dai contadini in montagna e in pianura, su terreni innevati o ghiacciati e su terreni paludosi e fangosi. Poteva essere trainata a mano, ed è il caso dell'esemplare valdostano qui esposto che veniva guidato tenendo con le mani le estremità ricurva dei pattini, oppure poteva essere tirata da un animale asino o mulo, come la slitta di Malcesine, in provincia di Verona, munita di timone a due stanghe alle quali l'animale veniva attaccato. La slitta di Malcesine viene mostrata insieme ai finimenti (imbraca e collare) dell'animale che la trainava.

Di particolare interesse, tra gli attrezzi a trascinamento esposti, è la marinara pugliese: collegata al giogo o la pettorale di un animale, tramite una catena o fune passante per i fori della barra inferiore, essa veniva tenuta dal contadino in posizione verticale, aderente al terreno, in modo tale da raccogliere la paglia tagliata e da trasportarla, al tempo stesso, in un determinato punto del campo. Vi sono inoltre alcuni veicoli con ruote condotti a mano: una carriola, usata per percorsi brevi, un piccolo carretto, che costituiva probabilmente anche un'unità di misura per i sacchi di farina, un carretto a due ruote con timone a due stanghe.

I veicoli su ruote a trazione animale sono introdotti da una serie di gioghi che documentano il sistema di collegamento tra l'animale e il carro per il traino. Sono esposti i gioghi per bovini da nuca e da corna, singoli o doppi, gioghi per equini. Con modalità che variavano da zona a zona, venivano collegati tra loro le parti centrali del giogo e il timone del veicolo. Sono inoltre esposte una serie di ferma coperte da buoi.

Il giogo, spesso recante figurazioni incise o dipinte e le iniziali della famiglia proprietaria, era oggetto ritenuto sacro: simboleggiava l'unione coniugale, la prosperità famigliare e, sebbene vecchio e inutilizzabile, non doveva essere bruciato, ma seppellito. Chi avesse bruciato un giogo, sarebbe stato punito con un'agonia lenta e dolorosa.

Nella sala è collocato un carro sardo a forcella e con due ruote fisse all'asse e timone centrale per i due buoi. Il carro a forcella trainato da una coppia di buoi con il piano di carico triangolare è il più semplice dal punto di vista costruttivo, all'inizio del Novecento permaneva solo in Sardegna e in Calabria, ma in epoca precedente costitutiva il carro agricolo tradizionale in tutta l'area italiana.

La tipologia di carro agricolo più diffusa in Italia all'inizio del secolo è invece rappresentata da due massicci carri da buoi, l'uno toscano, dotato anche della forca di sostegno per le briglie, e l'altro emiliano, a due ruote con timone, muniti di cassone con sportello posteriore mobile.

Il primo presenta decorazioni in metallo e motivi intagliati nel legno, l'altro romagnolo interamente dipinto. Dal punto di vista strutturale, questo tipo di carro, diffuso nelle regioni dell'Italia settentrionale, è costituito dal telaio (i due carrelli, anteriore e posteriore) e dal piano di carico che li collega. Si notino, nel piano di carico la tavola centrale che, rimossa, consentiva il trasporto delle grandi botti, e, al di sotto del piano di carico, nella parte posteriore, l'albero di legno orizzontale in cui veniva serrata e bloccata la corda che legava il carico. I due massicci carri esposti erano carri costosi, che alcuni contadini acquistavano, a costo di indebitarsi, per poter ottenere più facilmente la gestione a mezzadria di un terreno. Entrambi gli esemplari recano dipinte o scolpite figure sacre, come quella della Madonna e San Giorgio, con evidente valore protettivo contro il rischio di incidenti; riportano inoltre iscrizioni che attestano i nomi del carradore e del decoratore, artigiani tra i pochi che in ambito popolare "firmavano" la propria opera.

In determinate occasioni come fiere, processioni, feste patronali e nozze, gli stessi carri comunemente usati per i lavori agricoli, venivano adibiti ad altre funzioni come il trasporto delle persone, del corredo nuziale della sposa. I buoi venivano allora ornati con frontali in tessuto o in metallo inciso, con ghirlande di lana per la fronte e le corna, predomina in questi ornamenti il colore rosso, che nella tradizione popolare ha funzione magico-protettiva.

Sono inoltre documentati i carri usati nelle attività di scambio. Il carro caratteristico dei carrettieri per il trasporto di merci su strada era quello a due ruote con timone a due stanghe, trainato da equini: alle stanghe del timone venivano agganciate le due catene collegate al pettorale dell'animale, le due punte del timone venivano ancorate lateralmente sopra la sella.

A questa tipologia di carri possono essere ricondotti gli esemplari esposti: un carretto a vino di area romana con cui veniva trasportato il vino dai centri dei Castelli Romani alle osterie della città, e due carri siciliani, uno proveniente dal palermitano, l'altro catanese che potevano appartenere a carrettieri come pure a contadini benestanti.

 

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Carro da vino

Il trasporto del vino, dai Castelli Romani fino alle osterie di Roma, era effettuato, ancora alla fine degli anni Quaranta, dai carrettieri del vino alla guida del caratteristico carretto a vino romano: un carro a due grandi ruote col solo piano di carico, col timone a due stanghe, dotato di una cappotta a soffietto. Col suo carico fisso, mezza botte ovvero 500 litri di vino, contenuto in 10 barili della capacità ciascuno di l. 50 oppure 8 barili da l. 60 circa, cui si aggiungeva una cupella da l. 20, il veicolo costituiva un'unità di misura: il Carretto.
Viaggiando di notte i carrettieri si organizzavano in carovana per difendersi da eventuali assalti dei briganti presenti nella campagna romana; un valido aiuto, nella sorveglianza, era loro offerto da un volpino o da un lupetto che sempre li accompagnava. Durante il tragitto sedevano su cuscini posti sopra ai barili, appoggiandosi alla cappotta, che fungeva loro da schienale oltre che da riparo dal sole e dalle intemperie. Questa, fissata a una delle due stanghe del carro, è documentata, negli ultimi decenni dell'Ottocento, nella tipologia dell'esemplare esposto, mentre precedentemente, era ricavata da un ramo, con le diramazioni tagliate a formare una larga struttura a ventaglio, la furcina, ricoperta di pelli di pecora, cinghiale o tasso.

Caratteristica è la copertura a soffietto con motivi vegetali dipinti (fiori, tralci di vite, grappoli d'uva) motivi che si ripetono spesso, con varianti, sulle sponde del cassone e sulle due ruote. Appesa alla cappotta, oltre a una piccola cupella, dono del committente al carrettiere, vi era la bubboliera, un insieme di campanacci, campanelli e campanelli sferici, i bubboli, che con il loro suono avvertivano del passaggio. La presenza del veicolo inoltre era segnalata, di notte, dalla luce di una lanterna posta al di sotto dello stesso allo scopo tra l'altro, di rischiarare la strada. Lo scampanellìo della bubboliera, provocato dal procedere del carro trainato da un cavallo, festosamente bardato, aveva il potere magico di allontanare gli influssi negativi, analoga valenza era evocata in modo più immediato dal corno, dall'iscrizione INVIDIA CREPA dipinta sul veicolo o su altre parti componenti.

I carrettieri, arrivati a Roma nella mattinata, consegnavano il vino agli osti bloccando le ruote del carro con due lunghe pertiche, le stesse usate per trattenere il carico durante il viaggio. Verso sera, a fine lavoro, tornavano "a vuoto" ai Castelli. Originari dei Castelli, dei rioni romani: Trastevere, Regola e Monti, i carrettieri del vino costituivano un gruppo sociale privilegiato, salvaguardato dall'uso di contrarre matrimoni al proprio interno e caratterizzato nell'abbigliamento da una fascia scarlatta legata in vita e da un cappello a larghe tese. Si costituirono in Università nel 1668 a Roma, presso la Chiesa dei loro Santi protettori Rocco e Martino a Ripetta.

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Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
Metro Linea B (EUR Fermi) Bus 30 Express, 170, 671, 703, 707, 714, 762, 765, 791
Amministrazione
trasparente

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