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#LACULTURANONSIFERMA la rubrica: Visti dalla finestra di Alessandra Broccolini
"Risorse culturali", socialità e narrative del dono nella domesticità forzata ai tempi del Coronavirus.
con testi di Alessandra Broccolini (SIMBDEA, Università la Sapienza di Roma) e reportage fotografico di Massimo Cutrupi (ICPi)
- In questi giorni di immobilità forzata che ci vede spettatori della drammatica evoluzione che la pandemia sta avendo a livello globale, in questi giorni di lutto che chiedono solo silenzio in cui le uniche parole di senso sembrano spettare ai medici, anche chi è solito guardare le forme di vita umane con gli strumenti dell'antropologia sta tentando di capire, di fare ordine, di iniziare a riflettere sull'epidemia e i tempi del contagio; riflessioni per ora iniziali che stanno prendendo forma da parte di diversi antropologi, ma che si andranno meglio a definire nei prossimi mesi e probabilmente anni.
- Verrà il momento per fare un'analisi critica adeguata e strutturata delle politiche messe in atto dal governo per contenere l'epidemia, un esame delle sue probabili cause, dei suoi effetti nelle nostre vite, e degli effetti che avrà questo nuovo corso sul piano economico, sul mercato del lavoro, sulle politiche sanitarie, ambientali e in generale sul tessuto democratico del paese. Ma per il momento uno dei pochi dati chiari, oltre a quelli che giornalmente ci restituiscono il dolore e il lutto è, come ha sottolineato Fabio Dei in un suo recente articolo su Fareantropologia, la situazione di "socialità modificata" che le misure adottate dal decreto Coronavirus #iorestoacasa dell'11 marzo scorso hanno comportato.
- Si tratta di misure senza precedenti per la nostra storia nazionale, e anche europea, che nel bene e nel male hanno aperto importanti spazi di osservazione e ci mettono in condizione di tentare alcune letture che possiamo provare a far dialogare anche con gli sguardi e i campi che frequentiamo, come quello dei patrimoni culturali.
- Non è facile in questo frangente mettere in connessione due ambiti apparentemente così distanti, quello dell'emergenza sanitaria e il campo dei "patrimoni culturali". Tuttavia, se una delle peculiarità dell'antropologia è proprio l'osservazione minuta degli interstizi del quotidiano e delle pratiche di vita della gente comune nelle interazioni con livelli macro del vivere e delle politiche, forse proprio osservare le forme della relazionalità "ai tempi" dell'invisibile virus può darci alcuni spunti.
- Nei giorni immediatamente successivi al decreto abbiamo iniziato a sperimentare sulla nostra pelle - inizialmente increduli poi via via sempre più adattati - misure di quarantena sempre più stringenti, un isolamento forzato che ha sconvolto le nostre vite. Sicuramente - è stato notato - è soprattutto nelle grandi città che i ritmi sono stati più sconvolti rispetti ai piccoli e piccolissimi centri, ad esempio della montagna, da tempo abituati ai vicoli deserti, ai tempi lenti, al silenzio.
© Massimo Cutrupi, 2020
- Improvvisamente, da un giorno all'altro, il traffico dalle nostre strade congestionate è scomparso, sono scomparse le macchine, la folla nelle strade, tutto il superfluo ha cessato di fare rumore; dalla mia finestra sento gli uccelli cantare la mattina ed è scomparso il sottofondo di rumore che anche di notte viene di solito anche dalle mie finestre chiuse. E si è aperto un gigantesco campo di osservazione delle dinamiche relazionali modificate, del nostro diverso rapporto con gli spazi vicinali, condominiali, domestici. Se non possiamo parlare di "etnografia", che è di certo difficile praticare rimanendo chiusi in casa, per lo meno possiamo guardarci intorno dalle nostre pareti domestiche, riallacciare le relazioni con quel mondo di prossimità che forse avevamo sempre ignorato.
- Si è già molto parlato della nuova socialità dei balconi che è nata in molti quartieri delle grandi città - dove evidentemente questa socialità era scomparsa da tempo, o non c'era mai stata. Sono nati piccoli e grandi nuovi ritualismi urbani, il "rito delle fatidiche ore 18" (lo potremmo chiamare così?), fatto di canti, pentole sbattute, concerti improvvisati, il rumore liberatorio, celebrativo, nazional-popolare, scaramantico. Si fanno amicizie dai balconi, si sorride, si urla a volte senza sapere cosa; c'è chi afferma che "prima" (la nostra temporalità ben presto si definirà intorno ad su un prima e un dopo il Coronavirus) nel suo palazzo non conosceva nessuno e nemmeno in quelli vicini, mentre ora si conoscono tutti per nome e cognome; persino Bono Vox canta e rende omaggio a questa Italia "dei mille balconi". Questo esercizio l'ho fatto fare qualche volta agli studenti romani, "prima" dell'anno 0; fargli raccontare e contare quante persone conoscevano realmente nel loro mondo di prossimità territoriale, nel palazzo, nella via, nei palazzi vicini. E i numeri spesso non arrivavano neppure a quelli delle dita di una mano.
© Massimo Cutrupi, 2020
- Facendo la spesa qualche giorno fa, nella lunga fila a distanza alla quale siamo tutti abituati in questi giorni, un uomo che aveva voglia di parlare mi racconta la vita nel suo palazzo, dei bisogni dei condòmini: mi parla del bisogno espresso da molti suoi vicini di fare movimento, di camminare, e mi racconta una storia che mi pare "buffa", che forse mi ricorda un film d'altri tempi, una commedia all'italiana, ma è emblematica di pratiche reali e soprattutto di narrative emergenti che mi pare iniziano a definirsi intorno ad una "idea" di ritrovata socialità, una sorta di mondo perduto che viene ricucito "dopo" e a causa dell'innominato. "Nel mio condominio - prosegue l'uomo - mi hanno nominato consigliere condominiale; ho le chiavi della terrazza comune dell'ultimo piano; ci siamo dati i turni per andare a fare ginnastica e correre in terrazza, ora che le palestre sono chiuse; c'è chi va il lunedì, chi va il martedì, chi il mercoledì. I condòmini mi chiedono le chiavi in base agli orari stabiliti, così non si creano conflitti e manteniamo le distanze". Una sorta di palinsesto condominiale che regola l'uso di uno spazio comune causa necessità e forse grazie alla necessità di mantenere le distanze. Già, proprio quegli spazi comuni che poco tempo prima, magari, erano stati oggetto di conflitti opposti a causa di chi ne avrebbe abusato a scopi individuali, per prendere il sole, o per mangiare, atto vietatissimo nella normale vita nelle grandi città.
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© Massimo Cutrupi, 2020
Sono molte le storie che iniziano a circolare su questa nuova socialità, o bisogno di socialità, che va a costruire un filone di narrative "ai tempi del..." che inizia a prendere forma a livello popolare. Sempre a queste pratiche/narrative appartiene tutto il filone dell'aiuto "donato" per poter svolgere compiti domestici di vario tipo e occupare il tempo: aiuto a scuola, cucina, musica, ginnastica, disegni, un "ti insegno come fare...." qualsiasi cosa, complice l'uso di social, Facebook, Youtube e naturalmente i media.
- Tra questi, un posto a parte lo occupa l'oggetto del desiderio, il feticcio, il dispositivo intorno al quale questa socialità modificata sta prendendo forma, l'introvabile dei nostri temi, il protagonista: la mascherina. Un oggetto che è entrato di prepotenza nell'immaginario e nelle pratiche quotidiane, un oggetto risolutivo delle paure popolari, dispositivo psicologico primario intorno al quale esercitare pratiche, creatività e una fondamentale e mai sopita "arte di arrangiarsi".
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© Massimo Cutrupi, 2020
Tutorial di varia natura ci insegnano a fabbricarne una fatta in casa, in uno slancio di ritrovata (anche qui) manualità al servizio degli altri; giungono notizie di iniziative virtuose - mi riferisco ad iniziative di piccola scala vicinale naturalmente e non ad iniziative di tipo "industriale" - ad esempio da Napoli, dove la tradizione del lavoro a domicilio attiva fino a pochi decenni fa, quel tessuto vicinale protagonista del cosiddetto decentramento produttivo, sta riattivando "produzioni" dal basso di mascherine; un mondo virtuoso che vale di per sé, risorsa umana al di là della protezione reale che questi manufatti possono dare dal contagio. Ma dalle città del sud arrivano notizie anche di iniziative che rievocano le altre grandi narrative sulle solidarietà vicinali, solidarietà creative, come quello della "spesa sospesa", che riecheggia il caffè sospeso, per aiutare i bisognosi in questo periodo difficile.
© Massimo Cutrupi, 2020
- E' troppo presto per dire se in questa "socialità modificata", al di là delle narrative che restituiscono un proliferare di risorse umane virtuose in azione, ci sia, come ha sottolineato Fabio Dei nel testo già citato, più utilitarismo o più spirito del dono, più sospetto e caccia all'untore, più nuove forme di solitudine, che si vanno ad aggiungere alle precedenti, più discriminazioni, che una neo-socialità e un modo nuovo di ripensare le relazioni sulla base del dono. Ma la "costrizione" territoriale che stiamo vivendo ci obbliga giornalmente anche a non allontanarci da casa di più di pochi metri e questo sta conducendo tutti verso esperienze di riappropriazione (ed esplorazione) forzata dei nostri territori di prossimità, anche se questo vale ancora una volta per le grandi città rispetto ai piccoli paesi, dove forse non è cambiato molto rispetto ad un mese fa. Se non possiamo parlare di una forma di patrimonio "culturale", possiamo parlare forse di un campo di "risorse" culturali intangibili che si stanno attivando in forme disparate a partire dalla gente comune, a livello senz'altro popolare, per fare fronte, ma forse soprattutto per dare un senso agentivamente al disordine generato dall'invisibile e rispondere a questo elevando il legame sociale, la solidarietà e il dono a forma simbolica ideale.