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Articoli filtrati per data: Maggio 2020

#ETNOMUSICOLOGIA: i CANTI DELLA PASSIONE IN SICILIA (A CURA DI GIUSEPPE GIORDANO, ETNOMUSICOLOGO)

Per la rubrica di etnomusicologia a cura di Claudio Rizzoni  (etnomusioclogo, funzionario DEA - MiBACT) Giuseppe Giordano – ricercatore in etnomusicologia presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata ci parla dei canti della passione in Sicilia

I materiali video proposti sono di proprietà di Giuseppe Giordano.

 

 

 

 

I canti della Passione in Sicilia

Lo scenario rituale che presenta tuttora la più estesa e intensa vitalità nel panorama siciliano è certamente costituito dal ciclo pasquale: dalla Quaresima alla Resurrezione. Le azioni che ricorrono in questo periodo, connesso come è noto all’equinozio di primavera, sono spesso il risultato di sincretismi tra canoni cristiano-cattolici e pratiche agrario-propiziatorie pre-cristiane.

I riti della Settimana Santa costituiscono un’occasione privilegiata di autorappresentazione per ciascuna comunità. Sono infatti giorni di intensa partecipazione collettiva che vedono impegnate specialmente le confraternite laicali, ma anche le associazioni e le corporazioni di mestiere. Questi gruppi, insieme alle istituzioni ecclesiastiche, si incaricano di elaborare programmi assai variegati che prevedono principalmente sfarzose processioni di simulacri e azioni drammatiche con personaggi viventi (denominate perlopiù mortori o casazze) che generalmente si pongono in continuità con la liturgia canonica, amplificandola nei contenuti ed elaborandone le forme celebrative.

Dalle rappresentazioni ambientate all’interno delle chiese ai riti che si svolgono nelle piazze o lungo le vie dei centri abitati, gli schemi cerimoniali intrecciano antiche consuetudini con pratiche di più recente introduzione, seguendo un processo di adeguamento e ri-funzionalizzazione.

Fra gli elementi che compongono la scena rituale, la musica e il canto assumono una particolare rilevanza nell’accompagnare i momenti celebrativi connessi alla Passione di Cristo: ritmi di tamburi “a lutto”, marce funebri, suoni di crepitacoli (tròcculi), squilli prolungati di trombe e canti devozionali marcano gli spazi cerimoniali e si pongono a “commento sonoro” del rito. La componente sonora della Settimana Santa trova però la sua più alta espressione nei canti in siciliano o in latino intonati durante le processioni o all’interno delle chiese, in particolar modo il Giovedì e il Venerdì Santo, giorni in cui si intensificano le occasioni rituali perlopiù di carattere paraliturgico.

I canti della Passione – denominati perlopiù lamenti, ladati o parti di la Simana – per tradizione vengono eseguiti da soli uomini (lamentatori) riuniti in gruppi corali (squatri) collegati perlopiù alle confraternite laicali, alle parrocchie o più raramente a corporazioni di mestiere. In questi ultimi anni, tuttavia, è stata rilevata anche qualche presenza femminile all’interno di alcune “squadre” di cantori. Questo interessante fenomeno, oltre a evidenziare un cambiamento di tipo stilistico nell’organizzazione stessa del canto, testimonia indubbiamente la vitalità di queste espressioni musicali e l’esigenza comunitariamente avvertita di non farle declinare, adattandole piuttosto a una concezione contemporanea della società.

In una ristretta area del Palermitano il repertorio dei canti di Passione è esclusivamente caratterizzato dallo stile monodico, sia solistico sia responsoriale, costituendo una specificità areale ben definita anche sotto il profilo storico culturale. Nelle località dove tuttora si rileva la permanenza di questo modello monodico, i canti presentano infatti alcune costanti che interessano sia le strutture poetiche sia gli stili esecutivi così come i contesti rituali entro cui vengono tradizionalmente eseguiti (esecuzioni itineranti notturne). Questi riti musicali, soprattutto nel passato, avevano la specifica funzione di “raccogliere” i membri delle confraternite laicali alle celebrazioni che di norma si svolgevano nelle prime ore del giorno seguente. D’altronde il modello della cosiddetta “chiamata rituale” è attestato per il passato anche per altre celebrazioni festive nella medesima area di riferimento.

In una estesa area dell’isola prevale invece il modello di canto polivocale la cui presenza è tuttavia più intensa nella parte centro-orientale. Questo specifico modo di canto presenta una struttura comune a quella del canto cosiddetto “ad accordo”, dove una voce solista intona per intero il testo verbale e le altre voci (che possono variare da una a quattro) realizzano sequenze accordali soprattutto in prossimità delle cadenze intermedie e finali. La voce principale di solito è detta prima e le altre vengono normalmente denominate secunna, terza, bassu. Talvolta è presente anche una voce acuta, solitamente all’ottava superiore rispetto al basso, di norma chiamata falsittu, sbigghiarinu, supravuci o schìgghia, a seconda delle località. La prima e il falsittu vengono eseguiti da singoli cantori, mentre le altre parti vocali possono essere anche raddoppiate.

Lo studio di questo repertorio musicale ha portato in alcuni casi a individuare rapporti con la tecnica del falsobordone, documentata nella musica scritta già a partire dal XV secolo ma riconducibile a prassi esecutive tradizionali ancora più antiche. Di norma in questo genere di repertorio la struttura musicale risulta fondata su segmenti melodici di senso compiuto che assumono una certa autonomia rispetto alla struttura del testo verbale, e quasi mai il verso musicale coincide con quello testuale. In altri casi i modelli di canto in uso durante la Settimana Santa si pongono in stretto rapporto con gli stili vocali che caratterizzavano soprattutto il mondo contadino o quello di altre categorie di mestiere (per esempio quello degli zolfatari o dei carrettieri).

Il repertorio polivocale accoglie testi verbali sia in siciliano sia in latino, questi ultimi provenienti da fonti liturgiche (inni, sequenze, salmi, versetti evangelici). La presenza di brani in latino farebbe presupporre, per il passato, un impiego degli stessi anche in contesti liturgici “canonici” (così come è ancora oggi osservabile presso alcuni centri siciliani). Fra i testi in latino figurano soprattutto lo Stabat Mater, il Popule meus, il Miserere, il Vexilla regis, l’Ecce lignum crucis. I cantori quasi mai eseguono integralmente il testo in latino, limitandosi di norma a intonare pochi versi iniziali ed eventualmente a ripeterli di volta in volta durante le processioni o nei momenti prestabiliti dalla tradizione locale. Sebbene la maggior parte di essi non comprenda appieno il testo latino (tra l’altro ampiamente modificato nella pronuncia popolare), i cantori riescono tuttavia a coglierne il significato più intimo, il senso più profondo, associando per tradizione ciascun brano a un momento preciso del rituale (l’incontro del Cristo con la Madre, l’arrivo al Calvario, la morte sulla Croce, ecc.).

I canti in siciliano invece hanno un carattere spiccatamente narrativo e sono perlopiù incentrati sul dolore di Maria che va in cerca del figlio condannato a morte. Quasi mai i testi verbali dei canti di Passione in siciliano evocano i sentimenti del Cristo condannato a morte. Ampio e invece l’uso di testi poetici che richiamano le sofferenze della Madre, esplicitate attraverso espressioni fortemente cariche di enfasi e di partecipato dolore.

Il canto tradizionale si pone dunque quale strumento privilegiato di compartecipazione individuale o comunitaria al dolore di Maria per la sorte del figlio condannato a morte. Non a caso le varie rappresentazioni rituali dell’incontro fra Cristo e sua madre (la cosiddetta spartenza), che tuttora si svolgono in città e paesi siciliani soprattutto la mattina del Venerdì Santo, sono sempre marcate dal canto tradizionale delle confraternite o di altri gruppi di cantori del luogo.

È attraverso il canto accorato che la comunità manifesta anzitutto sentimenti di cordoglio a Maria e al contempo abbraccia simbolicamente colui che si avvia alla morte, rinnovando così il legame con il divino e favorendo il rituale processo catartico di rinascita comunitaria che culminerà nella Domenica di Pasqua.

 

 

Esempi video:

 

115%;">Nel video sono contenuti quattro esempi relativi ad altrettante località in cui i riti della Settimana Santa presentano un particolare interesse soprattutto sotto il profilo etnomusicologico:

A Mussomeli, centro in provincia di Caltanissetta, la presenza di cinque nutriti gruppi di cantori che intervengono durante le processioni del Giovedì e del Venerdì Santo evidenzia una spiccata vitalità che investe tanto la dimensione rituale quanto quella musicale. Ciascun gruppo è connesso a una confraternita e nel corso della processione si posiziona dinanzi al fercolo di riferimento, indossando il proprio abito confraternale. In questo paese il repertorio polivocale dei canti di Passione è costituito esclusivamente da brani con testi in latino.

A Riesi, piccolo centro della provincia di Caltanissetta, nella notte fra il Giovedì e il Venerdì Santo il simulacro dell’Addolorata è portato in processione per l’intero paese, fra continui spari di castagnole disposte su strisce di polvere da sparo realizzate su richiesta dei devoti ai bordi delle strade, al passaggio della processione. La polvere da sparo e le esplosioni richiamano la memoria di una comunità di ex minatori che giorno per giorno sfidava la morte nelle miniere di zolfo della zona. Nel simulacro dell’Addolorata che va in cerca del Cristo condannato a morte ciascun riesino rivede l’immagine di una madre che disperata va alla ricerca del figlio dopo una delle tante catastrofi avvenute nelle miniere. Il canto accorato a la surfarara (al modo degli zolfatari) marca il tempo del lutto, accompagnando il simulacro del Cristo morto verso la sepoltura.

A Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, diversi gruppi di cantori, non strettamente legati a confraternite, cantano la Visilla (denominazione locale dell’inno liturgico Vexilla Regis) durante la lunga processione del Venerdì Santo. Ogni gruppo si posiziona dietro ciascuna delle varette (fercoli processionali su cui sono collocati gruppi statuari rappresentanti scene della Passione) sonorizzando gli spazi urbani toccati dalla processione.

A Pietraperzia, paese della Sicilia centrale in provincia di Enna, il canto delle lamintanze fa da sfondo, insieme alla banda musicale, alla solenne processione del Signuri di li fasci (Signore delle fasce), un Crocifisso fissato su un globo all’estremità di un’alta asta in legno (àrbulu) innestata su una macchina processionale portata a spalla dai circa ottanta confrati. Dal Cristo pendono centinaia di lunghi nastri bianchi (fasci) le cui estremità inferiori vengono sorrette dai fedeli, nell’intento di istituire un contatto fisico con il simulacro. Il gruppo dei cantori, in abiti confraternali, si posiziona dinanzi al fercolo processionale, rievocando i momenti della Passione di Cristo per mezzo di versi in siciliano intonati in forma responsoriale fra un solista che espone per intero il testo poetico e il coro che interviene all’unisono nelle cadenze intermedie e conclusive.

Bibliografia

BONANZINGA, Sergio

2002a ‘Suoni e gesti della Pasqua in Sicilia’, Archivio Antropologico Mediterraneo, I/VII, 5-7: 181-190.

2002b (a cura di), Riti della Pasqua in Sicilia, DVD,Università degli Studi di Palermo – Dipartimento di Beni Culturali, Palermo.

BUTTITTA, Antonino

1978 Pasqua in Sicilia, con fotografie di Melo Minnella, Grafindustria, Palermo.

GAROFALO, Girolamo e Elsa GUGGINO

1993 (a cura di), Sicily. Music of the Holy Week, CD, Auvidis-Unesco, D 8210, con libretto allegato.

GIORDANO, Giuseppe

2016 Tradizioni musicali fra liturgia e devozione popolare in Sicilia, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo, con 2 CD allegati.

2018 ‘Il canto della Settimana Santa’, in Rosario Perricone (a cura di), La cultura tradizionale in Sicilia. Forme, generi, valori, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo, pp. 191-209.

GUGGINO, Elsa e Ignazio MACCHIARELLA

1987 (a cura di), La Settimana Santa in Sicilia, disco Albatros VPA 8490, Milano, con libretto allegato.

MACCHIARELLA, Ignazio

1993 I Canti della Settimana Santa in Sicilia, Folkstudio, Palermo.

1995 Il falsobordone fra tradizione orale e scritta, Libreria Musicale Italiana, Lucca.

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LUCIGRAFIE

L’attenzione dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale nei confronti di Gubbio e delle infinite stratificazioni e declinazioni del suo patrimonio culturale, nasce nel lontano 1911, quando Lamberto Loria, mitico fondatore della nostra istituzione e dell’interesse verso quello che oggi chiamiamo patrimonio immateriale, volle con tutta la sua determinazione esporre i Ceri di Gubbio nella Mostra di Etnografia Italiana organizzata nell’ambito dei festeggiamenti per il cinquantenario dell’Unità d’Italia.

Quegli stessi Ceri, i mezzani costruiti nel 1894, esposti nelle sale del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari del Museo delle Civiltà, sono stati i protagonisti di una memorabile iniziativa di repatriation che li ha visti tornare a Gubbio nel 2017 in occasione della mostra “L’ultima muta”, realizzata sulla base di un approfondito studio dei carteggi conservati presso l’Archivio Storico dell’ICPI.

Ai documenti visivi, raccolti nel corso di moltissime rilevazioni etnografiche realizzate dall’Istituto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso ad oggi, si è aggiunto nel 2018 "Prodigio in Slow Motion", il film di Francesco De Melis, prodotto dall'Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale che nell’arco di un solo anno, un 2019 tutto da raccontare, è riuscito ad emozionare il Cile, l’Argentina ed il Messico e punta ora alla Bienal de la Habana, nel progetto espositivo itinerante “Racconti (in)visibili”. Lo stesso film che, nella versione “affresco digitale”, videomapping realizzato dagli exibithion designers di OpenlabCompany sulla volta della ex- chiesa di San Sisto, oggi Museo di arte contemporanea Francesco Messina, ha stupito la città di Milano, nella mostra “Con straordinario trasporto”, dove molti eugubini, tra i tanti visitatori affascinati, hanno provato la straordinaria emozione di avere i Ceri mezzani nel cuore di Milano, insieme alle iconiche strutture delle macchine festive di Nola, Palmi, Sassari e Viterbo.

La rilevanza antropologica della Corsa dei Ceri e l’appassionamento che la sua complessità di pratica festiva suscita tra gli studiosi, sono stati il punto di partenza di molti progetti di valorizzazione e di salvaguardia, di innovazione in campo espositivo, di apertura al panorama culturale mondiale: un percorso nel quale al valore scientifico, si accompagnano la propositività e la grande disponibilità della comunità ceraiola e delle istituzioni eugubine sostenute dall’entusiasmo e dalla solidarietà della Rete delle Grandi Macchine a Spalla di cui Gubbio è parte da quasi 15 anni.

Il 15 maggio, giorno della Corsa, è sempre segnato sull’agenda dell’Istituto come giornata non disponibile per nessun altro evento e non di rado, mettendo a calendario gli impegni istituzionali e la routine di servizio ci troviamo a dire “No, a metà maggio non possiamo, ci sono i Ceri!” Quest’anno, benché il 15 maggio fosse cerchiato già da tempo e tutti gli appuntamenti fissati alla giusta distanza, i Ceri non hanno corso.

La quarantena che ha bloccato la nostra quotidianità, ha fermato anche il tempo della festa, il ritmo della corsa, il rinnovarsi rituale del tempo e delle stagioni. L’attesa della guarigione collettiva, una pratica che i nostri giorni non avevano mai conosciuto, ha cristallizzato i suoni, i gesti, i profumi, i sapori e i colori della festa, ma non ha certamente cambiato il suo senso più profondo: l’affidamento alla devozione dei Santi, l’offerta del sacrificio, il voto, la preghiera, l’invocazione della grazia. Quella di quest’anno è stata la corsa più ardua, la salita più dura, la muta più difficile: è stata “l’assenza” il peso insostenibile sulle spalle dei ceraioli, un dolore che nessuno meritava, al quale solo la fede più profonda può dare un senso.

La sospensione delle Sacre Rappresentazioni e degli altri eventi devozionali e festivi legati alla Passione di Cristo e alla Settimana Santa, che ha impedito lo svolgersi di pratiche devozionali tra le più significative e radicate della nostra tradizione, è stata la prima di una serie di assenze con le quali le comunità festive italiane si sono dovute confrontare. Il nostro lavoro di documentazione e i nostri abituali percorsi accanto alle comunità festive ci hanno portato, in questi giorni, a misurarci con l’incertezza, con il disorientamento, con il dolore delle comunità private della possibilità di rappresentare e celebrare riti e tradizioni. Abbiamo così riflettuto sul valore dell’antropologia visiva non solo come strumento di analisi critica del visibile, ma anche per il suo valore documentario o, più semplicemente, ma non banalmente, per la sua funzione di raccogliere e conservare ricordi.

In questa lunga attesa di ritorno alla festa, in cui il potere evocativo della memoria compone nella mente di ognuno la sequenza unica e irripetibile del flusso dei ricordi, è nata l’idea di Lucigrafie, una performance virtuale nel cuore di Gubbio che si ispira a quei ricordi trasfigurandoli in un’opera di arte contemporanea, e che sarà anche il cuore di un nuovo progetto di video installazioni evocative che la Rete delle Grandi Macchine a Spalla realizzerà in collaborazione con l’ICPI e con l’Ufficio Patrimonio Unesco nell’anno del tempo sospeso.

Lucigrafie prevede la proiezione sulla facciata del Palazzo dei Consoli, a Gubbio, di una versione inedita di "Prodigio in Slow Motion", come un immenso affresco "all'aria aperta", in alta risoluzione, con un potentissimo impianto audio surround dislocato in quadrifonia e con la sorprendente scenografia evocativa dei Quiet Ensemble, un duo di performers che hanno maturato, nel campo delle istallazioni con elementi naturali -incluso il governo dei fumi e degli agenti atmosferici- una esperienza internazionale.

Lucigrafie, evocazione della memorabile assenza in tre atti in forma di video-arte, sarà messa in scena da Openlabcompany – lo stesso team che, oltre gli affreschi milanesi, ha progettato e realizzato la sezione audiovisiva della mostra “Unwritten structures. Racconti (in)visibili”. L’intera performance verrà a sua volta filmata, da terra e in volo, con un set di cinecamere in movimento per la regia di Francesco De Melis che ha ideato l'evento in collaborazione con l'Archivio di Antropologia Visiva dell'Istituto.

Il film diventerà una sorta di installazione dell'installazione, che l'Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale inserirà nel percorso espositivo della mostra internazionale Racconti (in)visibili, che, nonostante tutto, sta proseguendo il suo itinerario rafforzando la valorizzazione e la promozione del patrimonio immateriale italiano nel mondo.

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#ITALIADALLEMOLTECULTURE. Il progetto di ricerca Co-Heritage: Microcosmi femminili di Torpignattara (per immaginare musei delle piccole cose quotidiane)

di Cristina Pantellaro

Camminare o passeggiare per le strade disordinate, affollate e rumorose di Torpignattara, un quartiere della periferia di Roma, è una esperienza stimolante, soprattutto se a farlo è un’antropologa che ha letto “L’invenzione del quotidiano” di Michel De Certeau e “I passages” di Walter Benjamin e ha appena avviato una ricerca sul quartiere Casilino e sui vissuti quotidiani di alcune comunità di origine straniera nell’ambito del Progetto Co.Heritage, promosso dall’Ecomuseo Casilino ad Duas Lauros.
Camminare per le strade di Torpignattara significa imbattersi in una vivacità dello sguardo, fatta di un susseguirsi di vetrine che propongono merci di vario genere: un piccolo bar di altri tempi espone i maritozzi con la panna e in prossimità del cui esterno si raggruppano, seduti, uomini anziani del quartiere, un ristorante poco visibile al suo interno con i menù in lingua cinese e privi di traduzioni, negozi di abbigliamento e di monili bangladesi, estetiste cinesi e vetrine che esibiscono teste di manichini con una selezione di parrucche colorate, trattorie tipiche romane e negozietti di olio e di vino, e ancora cibo da asporto indiano che inonda la strada di profumi speziati.
Questo genere di esperienza si propone ad ogni passo, lungo le strade che definiscono il perimetro del quartiere e il cui disordine è accentuato dall’affastellamento di stili architettonici di edifici che risalgono a epoche diverse e che rievocano a volte la vita rurale e altre, postmodernismi creativi, o sorprendono con percorsi di street art e murales realizzati attraverso iniziative condominiali e piccoli scorci di vendita di pane e pizza gourmet.
È in questo scenario che ho incontrato le donne bangladesi che sono diventate protagoniste della mia ricerca, a volte sopraffatta dai rumori di treni metropolitani che corrono veloci in via Casilina, o seduta in un piccolo tavolino arrangiato di un chiosco sul marciapiede di via Marranella, con un registratore portatile anch’esso custode dei suoni della città, oltre che delle voci delle mie interlocutrici.
L’obiettivo era quello di indagare in che modo le culture espressive delle comunità straniere si inseriscono e si mescolano a quelle preesistenti del territorio che abitano e vivono nel quotidiano.
Ma mentre osservavo lo spazio urbano, in particolare, inteso come rappresentazione di un operoso espressivo femminile, mi sono soffermata sulle “cose”, sugli oggetti che lo riempivano; e mentre osservavo le “cose” ho visto i corpi diventare spazi simbolici per eccellenza, mescolarsi in contesti pubblici, ciascuno portatore di narrazioni e di storie da raccontare.
Il mio taccuino si è riempito di liste, di elenchi di oggetti di uso quotidiano che “occupano” lo spazio del corpo femminile e che come segnali luminosi forniscono molte informazioni di coloro che li indossano, della loro cultura, delle tradizioni, di contaminazioni creative, di legami affettivi, dello status e del proprio credo religioso.
Per raccontare quindi le culture espressive, ho deciso di cominciare proprio da quegli oggetti a cui le donne, con le quali ho conversato, sono particolarmente affezionate, e li ho distinti in due categorie.
La prima relativa alla sfera pubblica, in cui la “cosa” e il suo significato viene riconosciuto simbolicamente dalla collettività di appartenenza, e l’altra riconducibile alla dimensione privata, in cui acquistano valore perché racchiudono, in modo tangibile, la memoria di un momento importante della propria vita che ha segnato un rito di passaggio (Van Gennep).
Nella mia lista compaiono “cose” come l’orecchino da naso che sostituisce la fede nuziale cattolica e rappresenta l’unione del matrimonio, ma che in Italia smette di essere tradotto come condizione di status da chi non condivide la cultura bangladese, oppure un anello che la madre ha donato alla figlia ancora minorenne e che apparteneva al nonno che non ha mai conosciuto e che resta chiuso in un cassetto in attesa di essere indossato.
Attraverso gli oggetti, le donne con cui ho conversato mi hanno descritto modi confacenti di parlare, per esempio senza fretta e senza urlare, modi femminili di camminare, a passi brevi e con incedere più lento di quello degli uomini, modi di indossare alcuni indumenti, come la sciarpa o il foulard che ogni donna possiede e la identifica come una vera bangladese. E ancora modi di preparare unguenti con oli e frutta, oppure di mangiare e di cucinare specialità locali.
Visto che le donne sono tenute a indossare abiti che non esaltano le forme del corpo ed alcune utilizzano anche il velo, i toni sgargianti, le fantasie dei tessuti, floreali, ricamati, o gli accostamenti dei colori hanno il compito di valorizzare il corpo femminile. Il velo può essere indossato in diverse maniere e ve ne sono per ogni occasione, quelli più comodi e pratici per lavorare, oppure altri più pregiati per le grandi occasioni.
Da quegli oggetti che hanno uno status sociale riconosciuto è stato immediato ricevere notizie su ciò che, in un paese straniero, ciascuno decide di mantenere, tramandare e valorizzare della propria cultura di origine; ma accanto a questi vi sono quegli altri che restano ancorati alla sfera privata del significato che gli viene attribuito e che afferiscono alla più diffusa cultura di massa, come per esempio un rossetto oppure un ciondolo di swarovski.
Questi due oggetti “materializzano” due momenti importanti nella vita di Nayana ed in quella di Sadia, perché in essi viene incorporata la narrazione del loro viaggio e del cambiamento nelle loro vite.

Nayana ha quasi quarant’anni ed è arrivata in Italia circa venti anni fa, quando ancora la comunità bangladese non era così presente sul territorio come lo è oggi. Arriva dopo essersi sposata, insieme al marito che ha già lavorato in Svizzera e si trasferiscono a Colli Albani, nella campagna romana. I primi tempi non sono facili per Nayana che rimane a casa senza uscire, spesso a letto tutto il giorno. Il cugino che vive in Italia già da molto tempo e che ha rappresentato per lei un punto di riferimento, in occasione di una visita a casa della parente, si accorge del suo stato d’animo e, per invogliarla ad uscire, le regala cinquantamila lire invitandola a reagire: “Vestiti, esci e vai a comprare quello che vuoi”. Nayana non conosce l’italiano e il cugino le insegna alcune frasi necessarie, “Quanto costa?” “Grazie”, “Prego”. Così finalmente esce di casa e sceglie un negozio in cui fare i suoi acquisti, una profumeria, in cui la prima cosa che compra è un rossetto della Dior.
Quel rossetto sancisce l’inizio del suo cambiamento di vita, la prima volta che compie un’azione in autonomia e, ancora oggi, lo conserva nella sua collezione di rossetti il cui numero aumenta di anno in anno.

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Nayana, settembre 2019 – Foto: Cristina Pantellaro

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Nayana, settembre 2019 Foto: Cristina Pantellaro


Sadia ha diciotto anni, vive a Torpignattara e frequenta la scuola serale di turismo perché in Italia vorrebbe lavorare in questo settore.
È arrivata dal nord del Bangladesh, da Rajshahi chiamata anche Silk city (città della seta), un luogo noto anche per le sue Università. Sadia mi descrive la sua città di origine come un luogo verde, pieno di alberi di mango, pulito, contrariamente a quanto si pensi in genere del Bangladesh, e non particolarmente inquinato. Il padre lavora da diciotto anni in un negozio di souvenir e si è quindi trasferito pressappoco dopo la sua nascita.
Sadia racconta che non ha saputo cosa significasse avere un padre finché non è arrivata in Italia sebbene il genitore fosse presente con lunghe e frequenti conversazioni al cellulare e nei periodi di ferie dal lavoro. Mi dice di sentirsi fortunata di avere “questi genitori” che la amano.
Nel periodo di separazione e nell’attesa di riunirsi in Italia, il padre regala a Sadia tanti libri illustrati, ricchi di informazioni storiche, promettendo alla figlia un posto bellissimo: “Un paese quasi paradiso! Si sta bene, c’è una bella vita ed è pieno di Storia”.
Tuttavia, la vista di “quei vecchi palazzi” e non di grattacieli si rivela una delusione e ci vorrà del tempo per apprezzare e scoprire Roma.
Il suo arrivo in Italia è segnato dal ricordo di un grande pacco pieno di giocattoli, vestiti e regali di benvenuto. Ma tra tutti i doni ricevuti, quello che conserva nel suo cassetto, nel quale ci sono i gioielli di un certo valore, “le cose d’oro”, è un ciondolo a forma di farfalla che le è stato regalato da un collega di lavoro del padre al suo arrivo in Italia e che ha indossato per molti anni, a tal punto da rompere la collana che lo reggeva e scheggiare il monile.
“Il ciondolo ce l’ho da dieci anni e lo conservo da tutto questo tempo. Quando lo prendo e lo guardo mi fa ricordare tante cose”.

SWAROVSKY

Swarovski, settembre 2019 Foto: Cristina Pantellaro

SADIA

Sadia, settembre 2019 Foto: Cristina Pantellaro 

Molti antropologi e ricercatori, in rapporto ad altre discipline, l’arte, i musei, le tradizioni popolari, la cultura di massa, hanno riflettuto e scritto sugli oggetti di uso quotidiano e sul valore simbolico di cui vengono caricati dalle persone che li espongono, esibiscono in vario modo, sulle pareti di un museo o sul proprio corpo, o che li conservano in piccoli scrigni privati, in fondo ai cassetti che aprono la memoria a ricordi sopiti. Oggetti che smettono di esistere nella funzione a cui erano destinati e che si trasformano in “oggetti di affezione” (Pietro Clemente), in oggetti narranti di storie contadine altrimenti destinate all’oblio (Ettore Guatelli) oppure da Res derelicta e ciarpame diventano protagonisti di collezionismi estremi (Vincenzo Padiglione).

Sugli oggetti seriali e di uso quotidiano della cultura di massa e sulle forme di consumo sono stati realizzati molti studi, come quello di Fabio Dei e Pietro Meloni e persino è stata elaborata una teoria dello shopping (Daniel Miller), ed attribuita una vita sociale alle cose (Arjun Appadurai), in cui il consumatore agisce e non è agito dal consumo che viene risemantizzato in una chiave di soddisfazione personale e di simbolizzazione del quotidiano.

Questi due oggetti presi, ad esempio, per raccontare sinteticamente il rito del viaggio, ma soprattutto dell’incontro con l’altro, e dell’inizio di un nuovo percorso, smettono di essere rossetti o ciondoli per diventare proiezioni materiali di frammenti di esistenze.

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Le riflessioni presentate rientrano in una più ampia ricerca etnografica realizzata nell'ambito del progetto Co.Heritage dell'Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros di cui avevamo già parlato in un precendente post dedicato al tema della relazione tra pratiche sportive e spazio sociale (leggi qui).

La ricerca è coordinata da Alessandra Broccolini e realizzata da Flavio Lorenzoni, Daniele Quadraccia e Cristina Pantellaro.

www.ecomuseocasilino.it

 

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#VISIONIDAITERRITORI L’Infiorata e la Festa dei Misteri: un viaggio attraverso le mappe interattive e il fumetto digitale del Segretariato Regionale per il Molise

di Lia Montereale - Segretariato Regionale per il Molise

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Mappa borghi del Segretariato regionale per il Molise

Iniziamo il nostro viaggio partendo dalla mappa borghi e precisamente da Campobasso. Ma prima vediamo insieme cosa sono le mappe tematiche interattive che ci accompagneranno in questo percorso.

Il Segretariato Regionale per il Molise, articolazione periferica del MiBACT, nel 2018 ha creato nove mappe tematiche interattive per divulgare la conoscenza del patrimonio culturale presente nella regione (mappe che nel corso degli anni si sono arricchite di contenuti e approfondimenti).

Le mappe raccolgono su un'unica piattaforma digitale le informazioni che riguardano il territorio, fornendo al visitatore uno strumento semplice da usare che, attraverso testi, ipertesti ed immagini, racconta e facilita la conoscenza del Molise.  

Sono interattive, sono costruite su piattaforma Google, sono utilizzabili sia da dispositivo fisso che mobile e sono dedicate ognuna ad uno specifico tema del patrimonio culturale del Molise.

Possono essere consultate a questo link: www.molise.beniculturali.it

Partiamo quindi da Campobasso (mappa borghi), capoluogo del Molise. La città ha origini longobarde e probabilmente esisteva già nell'ottavo secolo con una propria cinta difensiva, edificata sui resti di un'antica fortificazione sannita. 

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Salita San Bartolomeo (borgo antico) a Campobasso. Foto di Lia Montereale

Secondo alcune ipotesi, il suo nome potrebbe derivare da Campus Vassorum, il luogo dove risiedevano i vassalli. Secondo altre ipotesi, il nome indicherebbe lo sviluppo della città verso le zone più basse rispetto al Castello Monforte che la dominava.

Tra le feste e le tradizioni popolari che appartengono al patrimonio culturale campobassano esploriamo in dettaglio l'Infiorata e i Misteri.

Ogni 31 maggio, Campobasso festeggia l'Infiorata e omaggia la Madonna dei Monti con magnifiche composizioni floreali che sono vere e proprie opere d'arte allestite nel borgo antico della città.

La comunità partecipa attivamente a questo evento creando tappeti di fiori dalle forme più diverse: disegni geometrici, simboli religiosi e raffigurazioni di Maria Santissima.

L’origine di questa tradizione ci porta indietro nel tempo e risale alla presenza di una comunità di frati cappuccini nella chiesa di Santa Maria Maggiore.

 

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Chiesa di Santa Maria Maggiore. Foto di Lia Montereale

Si narra che nel 1905 il vescovo di Bojano-Campobasso affidò la chiesa, da tempo abbandonata, ai frati e questi si impegnarono a ristrutturarla per renderla più accogliente e decorosa.

La chiesa, ristrutturata e risistemata, fu inaugurata il 30 maggio 1911 e il mattino seguente la statua della Madonna fu portata in processione per le vie della città.

Da allora è iniziata la processione della Madonna del Monte di fine maggio e ha preso avvio la successiva tradizione dell’Infiorata.

L'evento, di natura religiosa, precede e introduce i festeggiamenti per il Corpus Domini e quindi la festa dei Misteri.

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Allestimenti floreali in preparazione dell’Infiorata. Foto di Donato D’Alessandro

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Palazzo Japoce a Campobasso, sede degli uffici del Segretariato Regionale per il Molise.

Foto di Donato D’Alessandro

Viaggiamo idealmente e spostiamoci quindi su un’altra mappa: la mappa delle feste e delle tradizioni del Molise e scopriamo che cos’è la festa dei Misteri.

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Mappa feste e tradizioni del Segretariato regionale per il Molise

I Misteri sono macchine, dette anche ingegni, costituiti da una base di legno nella quale è inserita una struttura in ferro che si sviluppa in verticale. Questa a sua volta si ramifica e porta con sé, ad ogni estremità, delle imbracature in ognuna delle quali viene posto un bambino. I bambini interpretano diversi personaggi. Possono essere angeli, diavoli, ma anche Santi e Madonne. Sembrano sospesi nel vuoto ma in realtà i loro costumi nascondono la struttura che li sostiene e le imbracature su cui sono collocati.

A seconda del Mistero rappresentato, ci sono anche altri personaggi nella scena, sia bambini che adulti, con ruoli specifici a seconda del personaggio interpretato.

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Processione dei Misteri. Foto di Donato D’Alessandro

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Processione dei Misteri. Foto di Donato D’Alessandro

Ma quali sono le origini di questa festa?

Ci troviamo nella Campobasso del sedicesimo secolo ed è proprio in questo periodo che abbiamo notizie di rappresentazioni sacre su palchi in legno costruiti vicino alle chiese. Successivamente, le principali confraternite laiche di Campobasso, per celebrare la festività del Corpus Domini, iniziarono a rappresentare scene sacre su barelle che venivano trasportate a spalla in processione. Il soggetto che veniva rappresentato sulle barelle cambiava ogni anno. Intorno alla metà del diciottesimo secolo, queste stesse confraternite affidarono allo scultore campobassano Paolo Saverio Di Zinno la progettazione di macchine da usare per la rappresentazione delle scene e per il trasporto dei figuranti e ne affidarono l’esecuzione ad abili fabbri ferrai di Campobasso.

Furono costruiti diciotto Misteri di cui sei furono distrutti durante il terremoto che colpì il Molise il 26 luglio 1805. Da allora hanno sfilato gli altri dodici Misteri “sopravvissuti” che raffiguravano Sant'Isidoro, San Crispino, San Gennaro, Abramo, Maria Maddalena, Sant'Antonio Abate, l'Immacolata Concezione, San Leonardo, San Rocco, l'Assunta, San Michele e San Nicola. Poi, nel 1959, i cugini Tucci, sulla base di un disegno attribuito a Paolo Saverio Di Zinno, realizzarono un tredicesimo Mistero, il Sacro Cuore di Gesù, che oggi chiude la sfilata.

Ma chi rende possibile l’organizzazione e l’allestimento delle scene e di questa solenne processione? In passato erano le confraternite a gestire la processione dei Misteri, ma a partire dal diciannovesimo secolo, a seguito della soppressione delle confraternite, la processione dei Misteri è organizzata dal comune di Campobasso che, dal 1997, è supportato dall'Associazione Misteri e Tradizioni diretta dalla famiglia Teberino.

Dopo più di 250 anni dalla loro realizzazione, le macchine processionali sono pienamente funzionanti e vengono fatte uscire ogni anno in occasione della festa dei Misteri nel giorno del Corpus Domini. I Misteri sono usciti eccezionalmente anche domenica 2 dicembre 2018, in pieno periodo invernale, per celebrare i 300 anni dalla nascita di Paolo Saverio di Zinno (1718-1781).

Rappresentano scene dell'Antico e del Nuovo Testamento e scene tratte dalla vita di alcuni Santi.

Durante l’anno le macchine processionali sono esposte presso il “Il Museo dei Misteri” a Campobasso gestito dalla stessa associazione.

Spostiamoci quindi su un’altra mappa, la mappa dei musei locali di appartenenza non statale.

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Museo dei Misteri a Campobasso. Foto di Donato D’Alessandro

Come abbiamo già avuto modo di vedere, la partecipazione attiva della collettività alla processione, rende i Misteri una festa fondamentale nell’ambito del patrimonio immateriale del Molise. Il Museo dei Misteri contribuisce alla diffusione della conoscenza e allo sviluppo della ricerca legata a questa antica processione mediante una serie di attività tra cui la digitalizzazione della documentazione e delle testimonianze ad essa relative, aggiornando costantemente il proprio sito web su cui è possibile consultare tutte le informazioni sulla festa e sul singolo Mistero (significato della scena rappresentata, numero dei personaggi, dei portatori e perfino il peso in Kg del Mistero), rendendo disponibile materiale informativo sia in italiano che in inglese, etc..

Il Museo è costituito da una sala d’ingresso che espone costumi d’epoca originali insieme a fotografie che ritraggono alcuni dei momenti più belli delle precedenti manifestazioni, una sala proiezioni “Gino Aurisano” che consente di vedere filmati della processione dei Misteri girate nel 1929, 1948, 1952, 1958, Roma 1999 e 2006, riguardanti la preparazione e lo svolgimento della manifestazione, che in parte ricreano l’atmosfera che si viveva e si vive ancora a Campobasso nel giorno di Corpus Domini. Infine, nella sala degli ingegni “Cosmo Teberino” è possibile ammirare le tredici macchine processionali di Paolo Saverio di Zinno.

Il Museo svolge dunque un ruolo centrale nel contesto della processione dei Misteri. Custodisce ed espone le macchine processionali che possono essere viste anche durante l’anno (e non solo in occasione del Corpus domini quando vengono fatte sfilare all’esterno); queste stesse macchine, progettate più di 250 anni fa da Paolo Saverio di Zinno e conservate nel museo, sono quindi ancora oggi utilizzate dalla comunità in occasione della processione dei Misteri.

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InternoMuseo dei Misteri a Campobasso - Gli ingegni di Paolo Saverio di Zinno.

Foto di Donato D’Alessandro

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InternoMuseo dei Misteri a Campobasso - Gli ingegni di Paolo Saverio di Zinno.

Foto di Donato D’Alessandro

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InternoMuseo dei Misteri a Campobasso. Foto di Donato D’Alessandro

Come abbiamo visto, il Museo non è un semplice contenitore che custodisce gli ingegni (le macchine di cui sopra) ma è strettamente legato alla comunità campobassana e al suo bagaglio di feste e tradizioni. Questo a dimostrazione che i musei, soprattutto i “piccoli musei” legati al territorio, svolgono un ruolo chiave nella salvaguardia e nella trasmissione del patrimonio culturale immateriale. Alcuni infatti, come in questo caso, svolgono un ruolo centrale e attivo nella conservazione, trasmissione e divulgazione della festa e della tradizione mantenendo un solido e stabile legame con la comunità di appartenenza, e promuovendo allo stesso tempo la tradizione anche in chiave turistica e di sviluppo territoriale.

Come Segretariato Regionale per il Molise abbiamo inoltre realizzato un fumetto digitale “C’era una volta…Molise”, disponibile in tre lingue (italiano, inglese e spagnolo) e consultabile su www.molise.beniculturali.it.

Il protagonista, personaggio di fantasia, è un frate con il blocco dello scrittore che non sa come riempire le pagine del suo manoscritto. Decide così di lasciare la sua abbazia e di intraprendere un viaggio alla scoperta del Molise. Incontrerà personaggi storici e leggendari legati al territorio che gli faranno da guida lungo il suo percorso, aiutandolo a ritrovare l’ispirazione e l’estro artistico. Le sue numerose avventure lo porteranno ad immergersi e a conoscere il grande e variegato contenitore del patrimonio culturale demo-etnoantropologico del Molise.

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“C’era una volta…Molise”, fumetto digitale del Segretariato Regionale per il Molise. Fra Giuseppe incontra Delicata Civerra, soprannominata la “Giulietta campobassana” per la tragica sorte amorosa che la accomuna al personaggio shakespeariano. È un personaggio leggendario che ci racconterà la storia della Chiesa di Santa Maria Maggiore e il significato dell’infiorata.

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“C’era una volta…Molise”, fumetto digitale del Segretariato Regionale per il Molise. Delicata Civerra spiega il significato dell’Infiorata.

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“C’era una volta…Molise”, fumetto digitale del Segretariato Regionale per il Molise. Festa dei Misteri

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“C’era una volta…Molise”, fumetto digitale del Segretariato Regionale per il Molise

Festa dei Misteri

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“C’era una volta…Molise”, fumetto digitale del Segretariato Regionale per il Molise.

Festa dei Misteri- incontro con il diavolo.

Per maggiori informazioni sulla festa dei Misteri e sul patrimonio culturale materiale e immateriale visitabile a Campobasso, è possibile consultare i seguenti link:

Festa dei Misteri_Istituto Centrale Patrimonio Immateriale

Festa dei Misteri 2006 Canale YouTube Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale

Festa dei Misteri 2017 Canale YouTube Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale

Associazione e Museo dei Misteri di Campobasso

Segretariato Regionale MiBACT per il Molise

Il nostro viaggio di oggi si conclude qui e speriamo di avervi incuriosito sul patrimonio demo-etnoantropologico di cui le feste e le tradizioni sono un elemento importante, anche se non l’unico. Vi diamo appuntamento al prossimo “viaggio” per scoprire insieme nuovi aspetti e nuovi elementi di questo grande patrimonio.

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#LACULTURANONSIFERMA. Il progetto MigrArti: presentazione di Paolo Masini e visione del corto "Krenk" di Tommaso Santi

 

Per la rubrica "Italia dalle molte culture", Paolo Masini ci racconta il progetto MigrArti promosso dal Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. Un’esperienza che ha dato un segno istituzionale importante e decisivo sul piano della valorizzazione e alla diffusione delle produzioni culturali delle comunità di migranti stabilmente residenti in Italia.

Attraverso una serie di bandi, il progetto MigrArti ha aperto negli anni scorsi nuove opportunità per sostenere le forme espressive e creative dei “nuovi italiani”. I bandi, rivolti soprattutto alle seconde generazioni, hanno permesso di realizzare numerose produzioni inedite nel settore dello spettacolo dal vivo e in quello dell’audiovisivo, con la realizzazione di rassegne cinematografiche e la produzione di cortometraggi.

Per l’occasione, Paolo Masini ci presenta uno dei corti realizzati nell’ambito del progetto: Krenk, un cortometraggio realizzato dal regista Tommaso Santi, Vincitore del Premio MigrArti 2018.

Link: https://vimeo.com/281783766

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#LACULTURANONSIFERMA. Le parole chiave del patrimonio im-materiale: OGGETTO (a cura di Emanuela Rossi)

Emanuela Rossi (antropologa culturale, Università degli Studi di Firenze) ci introduce al tema dell'oggetto di natura demoetnoantropologica. 

Riferimenti bibliografici

Barbara Kirshenblatt-Gimblett, Objects of ethnography in Exhibiting Cultures. The Poetics and Politics of Museum Display, I.Karp-S. Lavine (eds), London/Washington, Smithsonian Institution, 1991, pp. 386-443;

Barbara Kirshenblatt-Gimblett, From Ethnology to Heritage: The Role of the Museum, SIEF Keynote, Marseilles, April 28, 2004;[http://www.nyu.edu/classes/bkg/web/SIEF.pdf]

Emanuela Rossi, Passione da museo. Per una storia del collezionismo etnografico: il museo di Antropologia di Vancouver, Firenze, Edifir, 2006;

Emanuela Rossi, Presenze/Assenze/Spostamenti, in "Antropologia Museale",14|numero 40/42|2017-2018; 

George W. Stocking, Gli oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale, Roma, Ei editori, 2000. 

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#LACULTURANONSIFERMA. #ITALIADALLEMOLTECULTURE. Il progetto di ricerca Co-Heritage: Sport e spazi pubblici

Presentiamo oggi alcuni spunti di riflessione di una più ampia ricerca etnografica legata al progetto Co.Heritage dell'Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros. La ricerca è coordinata da Alessandra Broccolini e realizzata da Flavio Lorenzoni, Daniele Quadraccia e Cristina Pantellaro. Oggi parliamo di uno dei temi: pratiche sportive e spazio sociale e Torpignattara. 

 

CRICKET, COMUNITÀ E SPAZI PUBBLICI.

di Flavio Lorenzoni

Il progetto Co.Heritage, nell’ambito del programma “Italia dalle molte culture” è finalizzato all’individuazione del patrimonio culturale condiviso dalle comunità italiane e migranti. In questo caso la nozione di “patrimonio” è intesa come strumento in grado di valorizzare la diversità culturale, di promuovere il dialogo interculturale e di essere volano per nuovi modelli di sviluppo e di governance.

Co.Heritage parte dal presupposto che tutte le comunità che vivono un dato territorio abbiano il diritto di compiere attività di sviluppo, tutela, salvaguardia e promozione del proprio patrimonio culturale. A tal fine vengono proposte una serie di iniziative e di azioni capaci di accompagnare le comunità a scoprire, studiare e raccontare il territorio che vivono. Si pongono in questo modo le basi affinché le comunità di origine straniera possano essere i soggetti delle narrazioni collettive proposte anziché gli oggetti.
L’approccio utilizzato è multidisciplinare, in modo da favorire approcci, spunti di riflessione e prospettive diverse su sul tema proposto.
Il progetto è stato promosso dall’Associazione Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros, un ente territoriale che opera nel quartiere di Torpignattara e in generale nella Periferia Est di Roma. Nasce circa dieci anni fa come espressione della volontà di diverse comunità locali di promuovere, salvaguardare, valorizzare il patrimonio culturale del quartiere, tramite la costruzione dell’Ecomuseo urbano da lei gestito. L’Ecomuseo coniuga un denso lavoro sul campo, a stretto contatto con le comunità tra attività nel quartiere, laboratori e visite guidate ad un costante sguardo al mondo della ricerca, della progettazione. Oggi l’Ecomuseo è un’istituzione nel quartiere la cui importanza è stata riconosciuta, dalla Regione Lazio tramite la Determinazione della Direzione Cultura e Politiche Giovanili n.G13389 del 07/10/19 con la quale l’Ecomuseo Casilino ad Duas Lauros è stato inserito nell’elenco degli Ecomusei di interesse regionale.
Ma in quale contesto opera l’Ecomuseo e in cosa consiste effettivamente il progetto?
La periferia Est di Roma, con particolare riferimento al quartiere di Torpignattara, è luogo particolarmente denso di comunità migranti, principalmente dall’Asia. Le comunità hanno modificato il lifestyle e l’estetica stessa del quartiere, trasformandolo e contribuendo a creare un’atmosfera multietnica e cangiante difficilmente riscontrabile in altri quartieri della città.
In questo contesto l’ecomuseo si è occupato di creare gruppi di lavoro interdisciplinari composti da ricercatori e ricercatrici capaci di operare sul territorio con i mezzi e le competenze acquisite e di fornire sguardi ed approcci diversi al contesto.
Il gruppo di ricerca del quale faccio parte si propone lo scopo di individuare gli spazi, le pratiche e le politiche con le quali le comunità migranti – principalmente la loro componente maschile – impiegano il proprio tempo libero, ponendo particolare attenzione alle pratiche sportive e ludico-ricreative.
L’idea soggiacente è quella di pensare gli spazi pubblici, generalmente considerati come interstiziali, marginali, altri rispetto agli spazi quotidiani, come centrali, fulcro di pratiche che solo parzialmente hanno a che fare con la dimensione ludica di chi li abita, diventando invece fulcro per le dinamiche di socializzazione.

Il periodo di ricerca sul campo è stato da maggio a settembre del 2019 all’incirca. Le attività ludico-ricreative nei parchi e nelle aree pubbliche sono infatti soggette alla stagionalità e al clima. La ricerca si è concentrata su un gruppo di giocatori di cricket che si riunisce all’interno del Parco Archeologico di Centocelle una volta a settimana. Tanto il contesto quanto il soggetto della ricerca presentano delle caratteristiche interessanti che è bene notare.

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Partendo dal contesto, il Parco Archeologico di Centocelle è grande parco pubblico che delimita a Sud-Est la zona di Torpignattara. Si tratta di un luogo denso, marginale, conflittuale. Diversi sono gli interessi in gioco stratificati nell’attuale conformazione del parco e nel suo ruolo sociale. Il progetto comprendeva un’area molto più vasta di quella che attualmente è aperta al pubblico. La definizione di parco “archeologico” è dovuta al fatto che al suo interno sono presenti tre siti archeologici di altrettante ville romane. Nessuno dei tre scavi è ancora iniziato.
Una parte dello spazio del parco è stata in passato proprietà dell’aereonautica militare per via della presenza l’aeroporto militare Francesco Baracca, la cui pista di atterraggio adesso è dismessa e risignificata da chi quotidianamente vive il parco.
Una questione controversa per l’area è quella che riguarda il confine sudorientale del parco dove sono nate numerose attività di sfasciacarrozze tutte lungo la via Palmiro Togliatti che con il tempo hanno eroso il territorio pubblico del parco. La porzione di parco immediatamente retrostante queste attività è inoltre stata oggetto di interramento di rifiuti. Ancora oggi si attende l’inizio dell’attività di bonifica, diventata burocraticamente indispensabile per ultimare la creazione del parco e cominciare gli scavi archeologici.
Anche l’area attualmente aperta al pubblico è essa stessa un nodo di significati attribuiti dalle diverse comunità, gruppi di persone o singoli individui che utilizzano il parco. Attori sociali che non rimangono a sé stanti ma interagiscono tra di loro proprio nel territorio pubblico del parco, dissolvendosi nella sua fluidità. Anziani, studenti, coppie, giovani famiglie, sportivi, dog-sitter, giocatori amatoriali di calcio e cricket, comitive di giovani, gite organizzate rivestono il parco di significati diversi. Così la pista d’atterraggio diventa pista da skateboard, pista di gare di bicicletta, campo da gioco.
L’area che ha fatto da sfondo immobile per il periodo di ricerca è campo da cricket per i miei interlocutori, ma diventa all’occorrenza campo da calcetto, slargo ideale per lasciar correre i cani o per fare un barbecue.
Questo luogo diventa, tra le altre cose, un luogo di festa che più volte ha accolto il Capodanno bangladese. Gli attori sociali mantengono la loro autonomia nel rivestire questo luogo di senso ma entrano in contatto tra di loro, e capita che l’uomo seduto sulla panchina abbassi il giornale per osservare una partita di cricket. Che i giocatori stessi si trovino a inseguire un cane esuberante che ha deciso di partecipare al gioco rubando la loro palla, che il proprietario del cane finisca per abbozzare qualche battuta con i ragazzi, che il profumo dei barbecue attiri non solo gli invitati, e così via. Parco Centocelle diventa un cosmo di interessi e di senso a sé stante rispetto al contesto.
Ma veniamo al soggetto della ricerca. Questo gruppo di giocatori è composto da circa una ventina di ragazzi (il numero non è mai rimasto fisso durante la ricerca sul campo) di età media variabile tra i 10 e i 35 anni. È un gruppo che per la maggior parte tende ad essere composto più o meno dalle stesse persone, mantenendo comunque una percentuale piccola di persone di volta in volta diverse.
Un dato anagrafico così vasto mi è sembrato significativo, soprattutto perché, tolti i due-tre elementi più giovani, anche a ragazzi di 11-12 anni viene consentito di giocare con i “grandi”.

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Il gruppo inoltre, a differenza di altri gruppi di giocatori coinvolti nella ricerca, si presenta anche molto variegato se osservato dal punto di vista dei paesi d’origine. Questo è un dato che mi ha fatto riflettere, soprattutto se si pensa che è composto da immigrati di prima generazione arrivati in Italia da un lasso di tempo variabile tra 1 mese e 4-5 anni. La ricerca fino al punto in cui mi sono insediato aveva individuato gruppi di gioco composti da persone provenienti tendenzialmente dallo stesso paese d’origine, che si scontravano in tornei o semplici partite con gruppi di persone provenienti da altre nazioni. Questo caso invece si è dimostrato sui generis. La provenienza maggioritaria è dal Pakistan, ma si riscontra un’elevata provenienza anche dal Bangladesh e, in misura sempre minore, dall’Afghanistan, dall’India e infine dall’Iraq.

Un gruppo di ragazzi intenti a giocare a cricket in un parco d’estate ci spinge riflettere, a porci delle domande, a mettere in discussione alcuni concetti. Cosa lega persone che non fanno parte della stessa comunità migrante a vedersi in maniera così assidua per condividere del tempo insieme? Cosa viene messo davvero in gioco durante le partite di cricket che vengono disputate? Che rapporto esiste tra il gruppo di giocatori, il contesto nel quale si svolge la pratica, e la pratica sportiva stessa? In che modo, da quali pratiche comunitarie e del sé è regolamentata la partita? Quale rapporto sussiste tra i giocatori, i propri oggetti e il terreno di gioco?

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Un altro elemento interessante emerso dalle interviste svolte a margine delle partite è il fatto che nonostante loro come gruppo si incontrassero sempre lo stesso giorno alla stessa ora nello tesso posto, quello non fosse l’unico momento in cui giocavano a cricket durante la settimana. Tutt’altro. La maggior parte di loro, compatibilmente con gli impegni lavorativi e di studio, giocava a questo sport appena possibile, investendo in questa attività una gran parte del proprio tempo libero, solo che non lo faceva con quel gruppo di persone, non in quell’orario e non in quel posto. È emerso infatti come il Parco Archeologico di Centocelle possa essere infatti considerato come un singolo nodo facente parte di una rete più ampia che coinvolge la maggior parte delle grandi aree verdi della città. Questa rete di luoghi ma soprattutto di legami sociali si configura a sua volta come una vera e propria rete di accoglienza per i migranti che si trovano a Roma, che sia per loro la tappa finale del viaggio o solo una tappa del così detto “corridoio per Londra” o per altrove. Insomma, una rete sociale innervata negli spazi interstiziali e spesso considerati marginali, che consente ai membri delle comunità migranti di condividere esperienze reciprocamente durante lo svolgimento di una pratica ludica.

 

FUORICAMPO. PRATICHE SPORTIVE NEGLI SPAZI PUBBLICI A TORPIGNATTARA

di Daniele Quadraccia

Pieni/vuoti

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Largo Perestrello, 2019 (Ph. Daniele Quadraccia)

La ricerca che vorrei presentare prende le mosse all’interno del progetto Co.Heritage (promosso dall’Ecomuseo Casilino Ad Duos Lauros) e ha avuto lo scopo di individuare, attraverso i metodi dell’indagine etnografica, pratiche, forme, spazi che riguardano le attività sportive e ludico-ricreative che si espletano negli spazi pubblici di Torpignattara e aree limitrofe, con particolare riferimento alle comunità migranti molto presenti nell’area. Un universo di pratiche multiformi che si snodano tra piazze, parchi, rovine archeologiche, slarghi e piccoli spazi vuoti lasciati da palazzi e automobili: il paesaggio urbano che diventa teatro ora di improvvisate partite, ora di veri e propri tornei. Luoghi non marginali o interstiziali, dunque, ma punti di incontro centrali per le comunità che li vivono. Arene ludico-sociali dove a essere messi in gioco sono valori comunitari, strategie di socializzazione, forme identitarie di appartenenza transnazionale. Tra gli sport più praticati sono quelli di squadra che maggiormente hanno suscitato l’interesse della nostra ricerca: soprattutto cricket, poi calcio, ma anche badminton e pallavolo.
Il contesto in cui si inserisce la ricerca è, dunque, ibrido e mutevole: le pratiche sportive hanno il più delle volte il carattere di informalità e avvengono con una frequenza instabile, per lo più dettata dall’estemporaneità. Ci si aggrega dandosi appuntamento telefonico o tramite i Social. C’è chi partecipa con una divisa di gioco, chi in tuta o calzoncini, chi in abiti non consoni all’attività sportiva limitando la sua presenza all’incontro amicale o a poche e limitate azioni. Altri fattori determinanti ai fini dell’incontro sono il tempo e le condizioni del campo: si gioca quasi esclusivamente nella stagione buona, soprattutto la domenica pomeriggio, se c’è spazio libero a sufficienza e se l’erba non è troppo alta. Oltre a questo non sono da trascurare gli impegni dei singoli membri: il lavoro, le attività in famiglia e all’interno delle comunità.
La scelta di uno spazio di gioco pubblico e condiviso è una delle forme di appaesamento e di rivendicazione spaziale che le comunità mettono in atto all’interno dei contesti urbani di approdo. A differenza dello sport praticato nei campi da gioco ufficiali e nelle palestre, che spesso si pone come alternativo e differenziato rispetto alle altre attività quotidiane e settimanali (si paga una quota, si acquistano abiti e strumentazioni ad hoc, si accede in spazi riservati e adibiti al solamente a quell’attività) e si espleta in uno spazio “altro”, lo sport praticato negli spazi pubblici dai membri delle comunità migranti è inclusivo, contiguo e parallelo alle altre attività comunitarie. Ci si va tutti insieme, partendo dalla moschea o dalla sede associativa di riferimento. Si può giocare a margine di un incontro, oppure ci si incontra per prendere importanti decisioni per la comunità appositamente nel giorno preposto al gioco. Delle volte, tuttavia, l’utilizzo del parco per giocare e allenarsi non è una scelta ma una necessità dettata dalla difficoltà ad accedere agli spazi privati, come campi sportivi e palestre, che hanno un costo troppo elevato. In questo caso gli spazzi pubblici possono essere considerati dai giocatori come luogo di marginalizzazione e stigmatizzazione. Visibilità e invisibilità, dunque, si compenetrano all’interno di uno scenario metropolitano dove ad essere “messa in gioco” è l’intera vita sociale dei gruppi sportivi. È proprio questo contesto multiforme formato dalle comunità, la loro permeabilità con l’esterno e il loro agire negli spazi pubblici che la ricerca ha trovato la sua cornice interpretativa ed ermeneutica.
Entrando un po’ più nel dettaglio, sono state seguite tre comunità di giocatori all’interno di quelli che sono i luoghi del quartiere più interessati dal gioco: una squadra afghana di cricket che si allena e gioca prevalentemente al Parco Archeologico di Centocelle, un gruppo di giovani ragazzi che passa il tempo tra il cricket e il calcio presso Villa De Sanctis, e una squadra di calcio formatasi per giocare il Torneo Bangla.

 

Piccole patrie, piccole nazionali: sport e identità in una squadra afghana di cricket

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Parco di Centocelle, 2018 (Ph. Daniele Quadraccia)

Il gruppo di giocatori afghani che mi ha accolto durante gli allenamenti si incontra soprattutto al Parco di Centocelle. Quella afghana è una comunità che vive sparsa in varie zone di Roma ma che comunque vede in Torpignattara il suo perno, sia per la Moschea di via Serbelloni che per la sede dell’associazione “Comunità Afghana in Italia”, di cui Jamali, il ragazzo con cui ho interagito di più nel corso degli incontri, è vicepresidente. I suoi membri sanno tutti giocare a cricket, considerato sport nazionale seppur di più recente sviluppo rispetto ad altri paesi come Bangladesh e India. Giocare con la maglia della propria nazionale rappresenta, dunque, per Jamali e per i suoi compagni un’importante forma identitaria volta al consolidamento di una prossimità con la Madrepatria. Nei giocatori afghani che la indossano crea orgoglio e senso di appartenenza. È per questo che il suo gruppo di amici, insieme ad altre comunità, ha creato una sorta di piccola coppa del mondo romana (e non solo) a cui partecipano squadre di varie nazioni del Commonwealth: Bangladesh, Sri Lanka, India, Pakistan, Inghilterra e anche Italia. È un torneo molto sentito dai membri delle varie nazionali e occupa un importante spazio nella pianificazione dei momenti ludico-ricreativi dei partecipanti, che si sobbarcano tutta la (non facile) organizzazione: «Quando stavamo a Colli Aniene l'anno scorso, a dicembre, abbiamo giocato tantissimo e ci siamo divertiti tantissimo. Ho giocato anche io: ogni tanto gioco con i ragazzi della squadra, perché ho mal di schiena, diciamo, e non riesco a farlo, anche per colpa del lavoro. Però organizzo. E quella l'avevo organizzata io» (Jamali).

 

Sport e Spazio pubblico: un confronto col Bangladesh

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Villa De Sanctis, 2019 (Ph. Daniele Quadraccia)

Hossain è un ragazzo bengalese di venti anni arrivato a Roma quando ne aveva sei. Nel 2012 è ritornato per 4 anni in Bangladesh per approfondire lo studio dell’Islam e di traduttore del Corano. È tornato in Italia da pochi mesi e ora si divide tra la famiglia e la moschea di Via Capua, dove continua la sua formazione e aiuta soprattutto con i più piccoli. Spesso li porta a giocare al parco di Villa De Sanctis, soprattutto d’estate quando non c’è la scuola. Al contrario dell’Italia, mi dice, in Bangladesh praticamente non esiste il calcio. Lo sport più praticato è senza dubbio il cricket, a cui si inizia a giocare da piccolissimi. Si pratica più o meno a tutte le età, dai più giovani agli adulti. In Bangladesh non c’è un concetto di spazio e parco pubblico come qui in Italia, dove si può andare a correre, sedersi, camminare e giocare. Perciò si gioca in strada, ovunque ci sia uno spazio vuoto, o di sera, quando le persone sono a casa: «La gente sta tutto il giorno al lavoro e non trovi mezzo metro quadro di spazio per mettere piede. Però in alcune parti ci stanno delle campagne, oppure un posto vicino al lago o a un fiume, perché il Bangladesh è tutto pieno di fiumi. In alcune parti i ragazzi fanno un campo piccolo, portano il filo della corrente e giocano da quelle parti».

 

Golden Night Team: la costruzione di una squadra di calcio

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Torpignattara, 2018 (Ph. Daniele Quadraccia)

I legami di amicizie e di conoscenze sono il substrato fondativo delle costellazioni di gruppi sportivi e di squadre informali che continuamente si aggregano e disgregano all’interno dei quartieri. Spesso sono formate da giovani o giovanissimi e non hanno una struttura pienamente organizzata, ma rappresentano i nuclei embrionali di potenziali squadre e associazioni, che talvolta vedono la luce, altre volte si sciolgono disperdendosi o confluendo altrove. È un panorama fluido e disomogeneo, difficile da rintracciare e seguire nella sua processualità se non in due momenti precisi: gli allenamenti e le partite. I primi nella maggior parte delle volte si espletano proprio nei parchi o nelle piazze, ovunque ci sia spazio a sufficienza; mentre le seconde possono essere giocate in contesti pubblici o privati, a seconda del grado di formalità della competizione.
La costituzione di una squadra costituisce un momento delicato per i giovani ragazzi. Oltre all’aspetto sportivo vengono messi in gioco valori e legami, strategie e tattiche di aggregazione e di convincimento, delusioni, momenti altalenanti di profonda condivisione e senso di tradimento. La squadra è il luogo privilegiato per costruire e rinsaldare amicizie, per sentirsi protetti e allo sesso tempo forti da poter competere con altre. Roman, tra i fondatori della Golden Night Team (che ha militato nel torneo ufficiale Bangla di calcio a 8 che si è giocato tra novembre e dicembre del 2018) mi ha raccontato la travagliata gestazione della squadra, inserendola all’interno della sua biografia e dei rapporti con i suoi amici: «Hanno abbandonato due/tre di loro, hanno detto "Guardate ragazzi, io da domani non gioco più con voi, gioco con un'altra squadra". "Ah come, loro erano i nostri rivali e ora tu giochi con loro? Scusa, tu non perdi solo la squadra, tu perdi anche l'amicizia. Pensaci, io ti do tempo, una settimana, due settimane. I ragazzi di Torpigna, guarda, nessuno ti darà il valore che tu avevi prima". Ho cercato di spiegare, ma non hanno ascoltato. "Vabbè allora se tu vieni noi ti salutiamo con un ciao come stai e basta, non ti aspettare altro"».

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#LACULTURANONSIFERMA Le parole chiave del patrimonio im-materiale: il MUSEO (a cura di Paola Abenante)

Paola Abenante (funzionaria demoetnoantropologa, Polo Museale del Lazio) ci introduce al complesso mondo del MUSEO.

 

Riferimenti Bibliografici Amaturo

M. – Filamingo V. – Abenante P. (2019), Un estratto del comodato della Scuola Professionale Femminile Margherita di Savoia al Museo Boncompagni Ludovisi , “OADI, Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative” n. 20; DOI: 10.7431/RIV20122019.

Ballacchino K. (2013), Per un’antropologia del patrimonio immateriale. Dalle convenzioni Unesco alle pratiche di Comunità, “Glocale” 6-7.

Broccolini A. (2011), L’Unesco e gli inventari del patrimonio immateriale in Italia, “AM” 10 pp. 41-51.

Caputo A. (2017), Il baule di Angelina. Il mestieri delle trine alla Scuola Professionale Femminile Margherita di Savoia di Roma, Roma, Aracne Editrice.

De Varine H. (2005) , Le radici del futuro. Il patrimonio locale al servizio dello sviluppo locale, Bologna, Clueb.

Latour B. (2005), Reassembling the Social: An Introduction to actor-network theory,Oxford, Oxford University Press.

Lunghi M.D., (2014) Magici Intrecci. Merletti meccanici italiani. Roma, Aracne Editrice.

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#LACULTURANONSIFERMA. #VISIONIDAITERRITORI. Tessere la Speranza: la serie di mostre e pubblicazioni dedicata alle Madonne vestite del Lazio

di Luisa Caporossi e Francesca Fabbri

Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l'area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l'Etruria meridionale

Dal mese di dicembre 2016 all'estate 2019 la Soprintendenza ABAP per l'area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l'Etruria meridionale si è fatta promotrice di una serie di eventi espositivi, ideata dall'allora Soprintendente Alfonsina Russo e portata avanti con continuità dal nuovo dirigente arch. Margherita Eichberg, dedicata alle “Madonne vestite” del Lazio. L’intento che principalmente ha mosso la Soprintendenza nell’elaborazione di questo progetto è stato quello di promuovere presso il pubblico potenziale la conoscenza di un patrimonio capillarmente diffuso sul territorio del Lazio e di riuscire a rappresentarlo nelle sue molteplici declinazioni. Con il termine “statua da vestire” si intende un'effigie tridimensionale rivestita di abiti in materiali tessili, a volte riccamente ricamati, applicati sia su statue interamente scolpite o modellate sia su figure-manichino, e dunque incomplete se prive degli abiti. Queste ultime sono rifinite e dipinte, spesso anche finemente, solo nelle parti a vista in legno, gesso, cartapesta etc. e possono essere dotate di strutture molto diverse: le più comuni sono “a girello” o “a conocchia” (vale a dire stanti su listelli lignei formanti un tronco di cono su cui si innesta il busto con la testa e le braccia), oppure ad asse verticale o “a palo”, davanti al quale sono appoggiate le gambe.

Fig.1

Francesco Antonio Picano, Madonna del Rosario, Casalattico (FR), Chiesa di S. Barbato vescovo,  1705.

Il busto spesso è costituito di materiali vegetali, rivestiti di tela, mentre le estremità sono sovente snodabili e/o smontabili per facilitare la vestizione. Il rivestimento tessile dei simulacri religiosi, attestato già nell'antichità pagana ma diffuso soprattutto nel mondo cattolico europeo e latino-americano ed accompagnato spesso dall'ornamentazione con parrucche e gioielli, costituisce quindi la peculiarità di questi beni culturali nei quali, in maniera particolarmente evidente e pregnante, è possibile rintracciare una stratificazione di valori e significati.

Dal punto di vista etnoantropologico, la statua vestita costituisce un bene materiale di notevole interesse, dal quale possono dispiegarsi infiniti percorsi immateriali relativi ai culti, alla ritualità delle vestizioni, alla devozione nelle sue valenze religiose, storiche e sociali, all’immaginario collettivo delle popolazioni nutrito di narrazioni di miracoli e prodigi legati alle effigi da vestire.

Superando alcuni preconcetti legati ad un'estetica considerata a lungo “popolare” per lo spiccato realismo, la polimatericità e talvolta la serialità dei manufatti, lo studio delle statue e dei loro considerevoli corredi ha rilevato al contrario l'indubbio interesse storico-artistico di alcuni esemplari, si veda ad esempio la Madonna del Rosario di Casalattico (FR), firmata dallo celebre scultore napoletano Francesco Antonio Capano e datata al 1705.

Fig.2

Vallerano (VT), Santa Maria della Pieve, Madonna del Rosario senza abiti (manichino a palo), 1700 ca.

Tale “riscoperta” è avvenuta molto spesso in occasione degli interventi di restauro che hanno interessato sia la statua che gli abiti, spesso pregevoli e antichi. E' il caso ad esempio della Madonna della Pieve di Vallerano (VT), recuperata grazie ad un intervento conservativo di somma urgenza che ha portato, oltre che alla rivitalizzazione di un culto abbandonato, ad una importante riflessione critica sui criteri metodologici che devono guidare ogni intervento di restauro di manufatti così complessi, sia dal punto di vista tecnico per la loro polimatericità e perché talvolta oggetto di ripetute manomissioni, sia dal punto di vista teorico per la necessità di preservarne i valori simbolici e la funzione.

Fig.3

Vallerano (VT), Santa Maria della Pieve, Madonna del Rosario prima del restauro.

Ciò è valso sia per le effigi che per i corredi tessili, spesso particolarmente ricchi e con un'articolazione del “guardaroba” che prevede la biancheria, abiti feriali e abiti festivi, a volte accompagnati dalle calzature.

Fig.4

Arpino (FR), Monastero di S. Andrea Apostolo, Abito festivo della Madonna di Loreto, fine XVII-inizio XIX sec.

Non di rado la Vergine indossa più capi sovrapposti, dalle sottovesti donate da donne povere a ricchi abiti da principessa. Di solito l’abito visibile è il più recente, ma via via che si giunge sino al corsetto si traccia lungo più strati di tessuto una vera e propria storia del costume.

Fig.5

Soriano del Cimino (VT), Chiesa di S. Maria del Poggio, scarpine del XVIII secolo della Madonna del Poggio.

In riferimento al contesto storico, grazie alle ricerche d'archivio è stato possibile tracciare sia il ruolo delle importanti famiglie nobiliari nella realizzazione di alcuni simulacri (come i Ruspoli a Vignanello) o nel dono di corredi e gioielli (ad esempio gli Altieri a Oriolo) sia le modalità di cura affidate nella maggior parte dei casi alle confraternite, in una tematica che unisce la “committenza elevata” all'associazionismo religioso e al tema delle feste e dei riti e delle pratiche rituali ad esse connessi.

Per rappresentare al meglio nell'ambito dei percorsi espositivi questa “polifonia” di significati, si è scelto come filo conduttore il tema della devozione religiosa alle Madonne vestite da parte delle comunità insediate sui territori come fattore di coesione sociale. Sottolineare il legame intercorrente tra il corredo delle effigi e il calendario liturgico, ha permesso infatti di mostrare ai visitatori una selezione di abiti che fossero testimonianza dei diversi culti mariani attestati nel territorio del Lazio meridionale e settentrionale quali la Madonna del Rosario, del Carmelo, di Loreto, della Madonna Addolorata, in relazione quindi ad altrettante categorie iconografiche. Nell’ultima delle mostre, tenutasi a Viterbo, si è scelto di porre l’attenzione sul culto: talvolta le Madonne vestite sono infatti oggetto di grande devozione, in altri casi invece il culto è stato abbandonato e le Madonne ritrovate in sagrestie o armadi hanno riattivato nella popolazione ricordi di processioni, portando a compiere restauri, studi o più semplicemente ricerche di vecchie foto nei cassetti.

Fig.6

Vallerano (VT), Santa Maria della Pieve, Corsetto della Madonna del Rosario, I metà XVIII sec.

Spesso infatti l’abolizione del culto nasce da disposizioni dei vescovi e non corrisponde al sentimento dei fedeli che talvolta si sono anche opposti con forza a tali decisioni.

 

Bibliografia

Tessere La Speranza collana diretta da Alfonsina Russo, Luisa Caporossi, Francesca Fabbri, Ed. Gangemi 2016-2019 (9 voll.):

Tessere la speranza: Il culto della Madonna vestita lungo le vie del Giubileo, Catalogo della mostra (Roma, Palazzo Patrizi-Clementi, 9 Dicembre 2016 - 9 Gennaio 2017), a cura di A. Russo, L. Caporossi e F. Fabbri, Roma 2016.

Tessere la Speranza. Le preziose vesti dalle Madonne Addolorate del Lazio a Santa Marìa de La Esperanza Macarena di Siviglia, Catalogo della mostra (Sora, Museo Civico della Media Valle del Liri, 15 Giugno – 22 Luglio 2017), a cura di A. Russo, L. Caporossi e F. Fabbri, Roma 2017.

Tessere la Speranza. Dal culto della Vergine del Rosario al restauro della Madonna della cintura di Gaeta, Catalogo della mostra (Gaeta, Museo diocesano, 27 Luglio – 1 Ottobre 2017), a cura di A. Russo, S. Urciuoli, L. Caporossi e F. Fabbri, Roma 2017.

Tessere la Speranza. Il culto della Madonna di Loreto, Catalogo della mostra (Arpino, Palazzo Boncompagni, 9 Dicembre 2017 – 9 Febbraio 2018), a cura di A. Russo, L. Caporossi e F. Fabbri, Roma 2017.

Tessere la Speranza. Le vesti celesti in Aracoeli, Catalogo della mostra (Roma, Basilica di Santa Maria in Aracoeli, 9 Marzo - 4 Maggio 2018), a cura di M. Eichberg, A. Russo, L. Caporossi e F. Fabbri, Roma 2018.

Tessere la Speranza. Il culto della Madonna delle Grazie, Catalogo della mostra (Capranica, Chiesa di San Francesco, 9 Maggio – 1 Giugno 2018), a cura di M. Eichberg, A. Russo, L. Caporossi, F. Fabbri, Giannino Tiziani, Roma 2018.

Tessere la Speranza. Le vesti preziose della Madonna di Loreto in Italia, Catalogo della mostra (Lisbona, Museo di São Roque presso la Santa Vasa da Misericordia de Lisboa, 16 Marzo - 19 Maggio 2019), a cura di S. Gizzi, A. Russo, L. Riccardi, Roma 2019.

Tessere la Speranza. Il culto della Madonna vestita nella Tuscia, Catalogo della mostra (Viterbo Monastero di Santa Rosa 31 Agosto- 3 Ottobre 2019), a cura di M. Eichberg, L. Caporossi, M. Arduini, Roma 2019.

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#LACULTURANONSIFERMA #VISIONIDAITERRITORI: SAN GENNARO E I BUSTI ARGENTEI DEI COMPATRONI DI NAPOLI A CURA DI VALENTINA SANTONICO (DEMOETNOANTROPOLOGA - MIBACT)

Contributo SABAP – NA per l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale - campagna MiBACT #laculturanonsiferma

I busti argentei dei Santi compatroni di Napoli. Poliedricità delle esigenze di salvaguardia: un’esperienza positiva.

 

 

Il contesto

Nel sabato che precede la prima domenica di maggio cade la prima delle ricorrenze annuali dedicate a San Gennaro a Napoli. Delle tre occasioni riservate alla commemorazione delle vicende che riguardano il Santo Patrono, questa è sicuramente la più sentita, la più partecipata e la più articolata. Celebrata per ricordare la prima traslazione delle reliquie di San Gennaro, l’evento vede, oltre alla partecipazione di una nutritissima folla di fedeli, quella delle autorità civili e religiose rappresentate nelle loro più alte cariche: il Cardinale per l’Arcidiocesi e il Sindaco per la Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro, i cui componenti sono da secoli i custodi riconosciuti della sua storia e dei beni ad essa connessi, tra cui il sangue stesso e i preziosissimi oggetti che compongono il corredo del Santo, donati in segno di devozione nei secoli.

In questa occasione viene svolto anche un corteo processionale il cui itinerario parte dal Duomo per arrivare a Santa Chiara, dove ha luogo una solenne celebrazione che culmina con lo scioglimento del sangue nelle ampolle. Nel suo annuale viaggio tra le strade del centro di Napoli, il busto dorato del Santo viene accompagnato da quelli argentei dei compatroni. Se ne contano 54, donati nel tempo da corporazionio dalla popolazione afferente a determinate parrocchie o quartieri esposti al culto sulle mensole della Cappella del Tesoro, delle sacrestie retrostanti ed ammirati nelle sale dell’adiacente Museo del Tesoro di San Gennaro. I più antichi risalgono al XVI secolo, l’ultimo è quello di Santa Giovanna Antida del 2009 a conferma della continuità e della persistenza che tale pratica cultuale ancora riveste nella città.

Ogni anno, in base alle richieste pervenute dalle parrocchie e dalle congregazioni o a rotazione, vengono scelti circa 20 busti per essere portati a spalla in processione da squadre di portatori che non necessariamente sono composte da cittadini napoletani, ma che possono arrivare anche da altre realtà italiane, come per il busto di Sant’Emidio, patrono di Ascoli Piceno. L’uscita dei “santi” in processione è un evento straordinario, che ha dato anche luogo alla nascita di un antico detto ancora oggi pronunciato alla comparsa di persone che si mostrano assai poco in giro: "... so' asciute 'e statue 'a dint' 'o vescovato!".

Il progetto

L’interevento portato avanti dalla Soprintendenza ABAP per il Comune di Napoli nel 2019 riguarda proprio i santi compatroni e le attività di preparazione che li vedono coinvolti come protagonisti, a latere della figura prevalente e dominante di San Gennaro, ma non per questo percepiti come secondari dai propri devoti. A ben guardare, lo stesso San Gennaro rivestirebbe il ruolo di compatrono, poiché la prima Patrona della città è Santa Maria Assunta, titolare anche del Duomo.

Nell’ambito del proficuo rapporto di collaborazione instauratosi con la Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro, la Soprintendenza ABAP per il Comune di Napoli ha proposto ed avviato una serie di iniziative tese a promuovere la tutela e la valorizzazione della manifestazione religiosa, parallelamente all’inizio di un organico programma di manutenzione delle sculture portate in processione.

Il progetto ha posto in essere un interessante laboratorio basato sullo scambio di pratiche e conoscenze tra i vari attori coinvolti, offrendo una occasione di riflessione interdisciplinare sul modo di intendere la tutela e la valorizzazione di un patrimonio culturale che si manifesta come vario e multiforme nei suoi riferimenti.

L’attività di tutela è stata portata avanti in due fasi: quella imprescindibile del restauro di alcuni busti, che nel corso del tempo avevano subito urti, rotture e ossidazione dovuta sia alla reazione del metallo con gli agenti chimici presenti nell’aria, che al contatto con la pelle delle mani e quella, altrettanto fondamentale, della in-formazione del gruppo di movimentatori. Il venerdì che precede il sabato interessato dalle celebrazioni, prima che iniziassero le operazioni di spostamento ed esposizione dei busti all’interno della navata laterale, è stato svolto un breve corso rivolto ai movimentatori i cui contenuti hanno spaziato dalla storia della devozione della città al proprio Santo Patrono, alla storia dell’arte e alla descrizione dei fattori di degrado dei manufatti. Scopo dell’iniziativa è stato quello di suggerire e concordare strategie di interazione con i busti al fine di prevenire eventuali danni attraverso il riconoscimento del ruolo attivo dei movimentatori e della loro posizione di portatori di un sapere informale ma, ora, ufficialmente riconosciuto.

La tutela di beni su cui vengono a convergere molteplici interessi culturali richiede, infatti, la costruzione di una metodologia di salvaguardia che tenga conto della loro specifica e polivalente natura. Oltre alla necessità di tutelare la loro componente materiale è fondamentale tener conto anche della loro funzione, del loro significato simbolico e delle occasioni in cui essi assumono il ruolo di oggetti significanti, elementi attivi all’interno di specifici contesti. Nel laboratorio si è quindi voluto riconoscere formalmente tutti questi aspetti cercando una soluzione di equilibrio tra esigenze diverse, ma complementari.

Considerazioni

La prospettiva antropologica si è rivelata preziosa in questa occasione come forma di mediazione tra saperi e pratiche di differente natura. Da un lato la necessità della tutela - dettata dal Codice dei Beni Culturali e abitualmente intesa come prevalente su qualsiasi altra forma di intervento - ha reso necessaria un’operazione di restauro, consolidamento strutturale e pulitura dei busti, ma nella circostanza specifica essa è stata armonizzata e integrata con le numerose altre esigenze a cui questi beni rispondono. Ad esempio, si è tenuta nella opportuna considerazione la necessità di rendere accessibili le sculture, garantendo le operazioni di movimentazione nella loro tradizionale modalità di svolgimento, facendo un passo indietro rispetto alla proposta, avanzata da parte dei tecnici, di utilizzo di strumenti meccanici che garantirebbero una maggiore sicurezza degli ambienti, dei busti argentei e delle persone che li maneggiano, ma impedirebbero per contro il soddisfacimento delle istanze devozionali, espresse attraverso l’offerta della propria fatica (alcuni busti arrivano a pesare oltre i 150 chili e sono spesso posizionati su mensole e nicchie difficili da raggiungere).Istanze, queste, che contribuiscono ad accrescere il valore patrimoniale di questo “rituale di preparazione”, il cui riconoscimento ha permesso di lasciare spazio all’espressione di pratiche e competenze non attuabili in un contesto diverso da quello consueto, la cui garanzia di continuità è stata ottenuta bilanciando le necessità di tutela con le esigenze della comunità di pratica.

Al progetto hanno partecipato per la SABAP Comune di Napoli la dott.ssa Laura Giusti (Funzionario Storico dell’Arte), la dott.ssa Annunziata D’Alconzo (Funzionario Restauratore), la dott.ssa Valentina Santonico (Funzionario Demoetnoantropologo) e il dott. Stefano Moscatelli (ALES).

Si ringrazia la Deputazione del Tesoro di San Gennaro, la sua Responsabile delle Attività culturali, dott.ssa Luciana De Maria, il dott. Massimiliano Massera che ha effettuato gli interventi di restauro e la squadra di movimentatori.

Bibliografia di riferimento

- AA.VV. (1958), “Devozione”, in Enciclopedia universale dell'arte vol.4, Istituto per la collaborazione culturale, Firenze, pp. 289-306.

- Boggio M., Lombardi Satriani L. M. (2014), San Gennaro. Viaggio nell’identità napoletana, Armando editore, Roma.

- Bravo G. L., Tucci R. (2006), I beni culturali demoetnoantropologici, Carocci, Roma.

- Cirese A. M. (2002), Beni immateriali o beni inoggettuali?, in “Antropologia Museale”, 1, pp. 66-69.

- Scovazzi T. et alii, (2011), Il patrimonio culturale intangibile nelle sue diverse dimensioni, Giuffre’, Milano.

- Strazzullo F. (2008), San Gennaro “defensor civitatis” e il voto del 1527, Cappella del Tesoro di San Gennaro, Napoli.

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Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
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