#ITALIADALLEMOLTECULTURE. Il progetto di ricerca Co-Heritage: Microcosmi femminili di Torpignattara (per immaginare musei delle piccole cose quotidiane)
di Cristina Pantellaro
Camminare o passeggiare per le strade disordinate, affollate e rumorose di Torpignattara, un quartiere della periferia di Roma, è una esperienza stimolante, soprattutto se a farlo è un’antropologa che ha letto “L’invenzione del quotidiano” di Michel De Certeau e “I passages” di Walter Benjamin e ha appena avviato una ricerca sul quartiere Casilino e sui vissuti quotidiani di alcune comunità di origine straniera nell’ambito del Progetto Co.Heritage, promosso dall’Ecomuseo Casilino ad Duas Lauros.
Camminare per le strade di Torpignattara significa imbattersi in una vivacità dello sguardo, fatta di un susseguirsi di vetrine che propongono merci di vario genere: un piccolo bar di altri tempi espone i maritozzi con la panna e in prossimità del cui esterno si raggruppano, seduti, uomini anziani del quartiere, un ristorante poco visibile al suo interno con i menù in lingua cinese e privi di traduzioni, negozi di abbigliamento e di monili bangladesi, estetiste cinesi e vetrine che esibiscono teste di manichini con una selezione di parrucche colorate, trattorie tipiche romane e negozietti di olio e di vino, e ancora cibo da asporto indiano che inonda la strada di profumi speziati.
Questo genere di esperienza si propone ad ogni passo, lungo le strade che definiscono il perimetro del quartiere e il cui disordine è accentuato dall’affastellamento di stili architettonici di edifici che risalgono a epoche diverse e che rievocano a volte la vita rurale e altre, postmodernismi creativi, o sorprendono con percorsi di street art e murales realizzati attraverso iniziative condominiali e piccoli scorci di vendita di pane e pizza gourmet.
È in questo scenario che ho incontrato le donne bangladesi che sono diventate protagoniste della mia ricerca, a volte sopraffatta dai rumori di treni metropolitani che corrono veloci in via Casilina, o seduta in un piccolo tavolino arrangiato di un chiosco sul marciapiede di via Marranella, con un registratore portatile anch’esso custode dei suoni della città, oltre che delle voci delle mie interlocutrici.
L’obiettivo era quello di indagare in che modo le culture espressive delle comunità straniere si inseriscono e si mescolano a quelle preesistenti del territorio che abitano e vivono nel quotidiano.
Ma mentre osservavo lo spazio urbano, in particolare, inteso come rappresentazione di un operoso espressivo femminile, mi sono soffermata sulle “cose”, sugli oggetti che lo riempivano; e mentre osservavo le “cose” ho visto i corpi diventare spazi simbolici per eccellenza, mescolarsi in contesti pubblici, ciascuno portatore di narrazioni e di storie da raccontare.
Il mio taccuino si è riempito di liste, di elenchi di oggetti di uso quotidiano che “occupano” lo spazio del corpo femminile e che come segnali luminosi forniscono molte informazioni di coloro che li indossano, della loro cultura, delle tradizioni, di contaminazioni creative, di legami affettivi, dello status e del proprio credo religioso.
Per raccontare quindi le culture espressive, ho deciso di cominciare proprio da quegli oggetti a cui le donne, con le quali ho conversato, sono particolarmente affezionate, e li ho distinti in due categorie.
La prima relativa alla sfera pubblica, in cui la “cosa” e il suo significato viene riconosciuto simbolicamente dalla collettività di appartenenza, e l’altra riconducibile alla dimensione privata, in cui acquistano valore perché racchiudono, in modo tangibile, la memoria di un momento importante della propria vita che ha segnato un rito di passaggio (Van Gennep).
Nella mia lista compaiono “cose” come l’orecchino da naso che sostituisce la fede nuziale cattolica e rappresenta l’unione del matrimonio, ma che in Italia smette di essere tradotto come condizione di status da chi non condivide la cultura bangladese, oppure un anello che la madre ha donato alla figlia ancora minorenne e che apparteneva al nonno che non ha mai conosciuto e che resta chiuso in un cassetto in attesa di essere indossato.
Attraverso gli oggetti, le donne con cui ho conversato mi hanno descritto modi confacenti di parlare, per esempio senza fretta e senza urlare, modi femminili di camminare, a passi brevi e con incedere più lento di quello degli uomini, modi di indossare alcuni indumenti, come la sciarpa o il foulard che ogni donna possiede e la identifica come una vera bangladese. E ancora modi di preparare unguenti con oli e frutta, oppure di mangiare e di cucinare specialità locali.
Visto che le donne sono tenute a indossare abiti che non esaltano le forme del corpo ed alcune utilizzano anche il velo, i toni sgargianti, le fantasie dei tessuti, floreali, ricamati, o gli accostamenti dei colori hanno il compito di valorizzare il corpo femminile. Il velo può essere indossato in diverse maniere e ve ne sono per ogni occasione, quelli più comodi e pratici per lavorare, oppure altri più pregiati per le grandi occasioni.
Da quegli oggetti che hanno uno status sociale riconosciuto è stato immediato ricevere notizie su ciò che, in un paese straniero, ciascuno decide di mantenere, tramandare e valorizzare della propria cultura di origine; ma accanto a questi vi sono quegli altri che restano ancorati alla sfera privata del significato che gli viene attribuito e che afferiscono alla più diffusa cultura di massa, come per esempio un rossetto oppure un ciondolo di swarovski.
Questi due oggetti “materializzano” due momenti importanti nella vita di Nayana ed in quella di Sadia, perché in essi viene incorporata la narrazione del loro viaggio e del cambiamento nelle loro vite.
Nayana ha quasi quarant’anni ed è arrivata in Italia circa venti anni fa, quando ancora la comunità bangladese non era così presente sul territorio come lo è oggi. Arriva dopo essersi sposata, insieme al marito che ha già lavorato in Svizzera e si trasferiscono a Colli Albani, nella campagna romana. I primi tempi non sono facili per Nayana che rimane a casa senza uscire, spesso a letto tutto il giorno. Il cugino che vive in Italia già da molto tempo e che ha rappresentato per lei un punto di riferimento, in occasione di una visita a casa della parente, si accorge del suo stato d’animo e, per invogliarla ad uscire, le regala cinquantamila lire invitandola a reagire: “Vestiti, esci e vai a comprare quello che vuoi”. Nayana non conosce l’italiano e il cugino le insegna alcune frasi necessarie, “Quanto costa?” “Grazie”, “Prego”. Così finalmente esce di casa e sceglie un negozio in cui fare i suoi acquisti, una profumeria, in cui la prima cosa che compra è un rossetto della Dior.
Quel rossetto sancisce l’inizio del suo cambiamento di vita, la prima volta che compie un’azione in autonomia e, ancora oggi, lo conserva nella sua collezione di rossetti il cui numero aumenta di anno in anno.
Nayana, settembre 2019 – Foto: Cristina Pantellaro
Nayana, settembre 2019 Foto: Cristina Pantellaro
Sadia ha diciotto anni, vive a Torpignattara e frequenta la scuola serale di turismo perché in Italia vorrebbe lavorare in questo settore.
È arrivata dal nord del Bangladesh, da Rajshahi chiamata anche Silk city (città della seta), un luogo noto anche per le sue Università. Sadia mi descrive la sua città di origine come un luogo verde, pieno di alberi di mango, pulito, contrariamente a quanto si pensi in genere del Bangladesh, e non particolarmente inquinato. Il padre lavora da diciotto anni in un negozio di souvenir e si è quindi trasferito pressappoco dopo la sua nascita.
Sadia racconta che non ha saputo cosa significasse avere un padre finché non è arrivata in Italia sebbene il genitore fosse presente con lunghe e frequenti conversazioni al cellulare e nei periodi di ferie dal lavoro. Mi dice di sentirsi fortunata di avere “questi genitori” che la amano.
Nel periodo di separazione e nell’attesa di riunirsi in Italia, il padre regala a Sadia tanti libri illustrati, ricchi di informazioni storiche, promettendo alla figlia un posto bellissimo: “Un paese quasi paradiso! Si sta bene, c’è una bella vita ed è pieno di Storia”.
Tuttavia, la vista di “quei vecchi palazzi” e non di grattacieli si rivela una delusione e ci vorrà del tempo per apprezzare e scoprire Roma.
Il suo arrivo in Italia è segnato dal ricordo di un grande pacco pieno di giocattoli, vestiti e regali di benvenuto. Ma tra tutti i doni ricevuti, quello che conserva nel suo cassetto, nel quale ci sono i gioielli di un certo valore, “le cose d’oro”, è un ciondolo a forma di farfalla che le è stato regalato da un collega di lavoro del padre al suo arrivo in Italia e che ha indossato per molti anni, a tal punto da rompere la collana che lo reggeva e scheggiare il monile.
“Il ciondolo ce l’ho da dieci anni e lo conservo da tutto questo tempo. Quando lo prendo e lo guardo mi fa ricordare tante cose”.
Swarovski, settembre 2019 Foto: Cristina Pantellaro
Sadia, settembre 2019 Foto: Cristina Pantellaro
Molti antropologi e ricercatori, in rapporto ad altre discipline, l’arte, i musei, le tradizioni popolari, la cultura di massa, hanno riflettuto e scritto sugli oggetti di uso quotidiano e sul valore simbolico di cui vengono caricati dalle persone che li espongono, esibiscono in vario modo, sulle pareti di un museo o sul proprio corpo, o che li conservano in piccoli scrigni privati, in fondo ai cassetti che aprono la memoria a ricordi sopiti. Oggetti che smettono di esistere nella funzione a cui erano destinati e che si trasformano in “oggetti di affezione” (Pietro Clemente), in oggetti narranti di storie contadine altrimenti destinate all’oblio (Ettore Guatelli) oppure da Res derelicta e ciarpame diventano protagonisti di collezionismi estremi (Vincenzo Padiglione).
Sugli oggetti seriali e di uso quotidiano della cultura di massa e sulle forme di consumo sono stati realizzati molti studi, come quello di Fabio Dei e Pietro Meloni e persino è stata elaborata una teoria dello shopping (Daniel Miller), ed attribuita una vita sociale alle cose (Arjun Appadurai), in cui il consumatore agisce e non è agito dal consumo che viene risemantizzato in una chiave di soddisfazione personale e di simbolizzazione del quotidiano.
Questi due oggetti presi, ad esempio, per raccontare sinteticamente il rito del viaggio, ma soprattutto dell’incontro con l’altro, e dell’inizio di un nuovo percorso, smettono di essere rossetti o ciondoli per diventare proiezioni materiali di frammenti di esistenze.
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Le riflessioni presentate rientrano in una più ampia ricerca etnografica realizzata nell'ambito del progetto Co.Heritage dell'Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros di cui avevamo già parlato in un precendente post dedicato al tema della relazione tra pratiche sportive e spazio sociale (leggi qui).
La ricerca è coordinata da Alessandra Broccolini e realizzata da Flavio Lorenzoni, Daniele Quadraccia e Cristina Pantellaro.