Menu
Ti trovi qui:Attività»Eventi»#LACULTURANONSIFERMA. Narrazioni da "Italia dalle molte culture" - Sultana Fashion. Un negozio di vestiti e gioielli a Torpignattara (Roma) di Claudia Campisano e Rosa Anna Di Lella
Sultana, Roma 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi) Sultana, Roma 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

#LACULTURANONSIFERMA. Narrazioni da "Italia dalle molte culture" - Sultana Fashion. Un negozio di vestiti e gioielli a Torpignattara (Roma) di Claudia Campisano e Rosa Anna Di Lella

 

Anche con la narrazione di oggi vi proponiamo alcuni frammenti di una ricerca in corso: estratti di interviste etnografiche e di reportage fotografici realizzati nell’ambito della ricerca su “Migrazione e imprenditorialità femminile” a Roma. Più nello specifico, ci addentreremo nel quartiere di Torpingattara, situato nel quadrante orientale della “periferia” romana.

La storia di questo luogo, che fu anche un importante teatro della Resistenza, è caratterizzata da uno sviluppo urbanistico peculiare e da una fase di svuotamento demografico seguita, in tempi più recenti, da una fase di ripopolamento che ha visto protagonisti cittadini provenienti in gran parte dal continente asiatico (vedi: Pompeo 2011, Ficacci 2017, Broccolini 2010, 2017) e, in particolare, dal Bangladesh. Questi processi hanno dato luogo ad un contesto che potrebbe essere definito di “superdiversità” (Vertovec 2007).

In tempi di normalità, passeggiando per le strade di Torpignattara, si viene immediatamente colpiti dalla forte presenza di cittadini provenienti dal Bangladesh i quali, nel corso degli anni, hanno aperto una serie di attività in quella che è stata ribattezzata la “Banglatown” romana. La preponderanza di uomini e donne bangladesi, che si sono qui specializzati nel settore della ristorazione e del commercio, era stata evidenziata, già nel 2009, da una precedente ricerca sul territorio condotta da Alessandra Broccolini (2009), la quale ha mappato e riflettuto sulla grande “vitalità commerciale” del quartiere e incontrato proprietari e gestori di attività commerciali di diverse “comunità” di più o meno recente migrazione.

Nel quadro derivante da questo complesso intreccio di provenienze, ibridazioni e conflittualità abbiamo voluto seguire il tema specifico dell’imprenditorialità femminile, che ci ha portato a osservare più da vicino quelle attività commerciali – soprattutto negozi di abbigliamento – gestiti da donne di origine bangladese. Muovendo dall’esempio delle attività gestite da donne bangladesi nel quartiere di Torpignattara, e seguendo le persone, gli oggetti e la manifestazioni immateriali che li attraversano e vi ruotano attorno, la ricerca vuole restituire un’immagine, seppur parziale, delle geometrie variabili che lo spazio urbano può assumere per queste donne nel processo di renderlo in un certo senso “casa”.

Uno degli obiettivi della ricerca è infatti quello di mostrare come le attività commerciali gestite da imprenditrici straniere rappresentino densi spazi di socialità percorsi da processi di affermazione della propria presenza all’interno del tessuto sociale e territoriale del contesto romano. In contesti di migrazione, i negozi divengono in molti casi importanti nodi sociali, dove gli individui possono trovare risorse, sostegno e informazioni, senza dover necessariamente passare per i canali istituzionali. All’occasione i retrobottega diventano anche spazi abitativi, dove alcuni bangladesi trascorrono parte delle loro vite a Roma, e spazi all’interno dei quali portare avanti iniziative sociali e politiche (Priori 2012). Proprio quest’ultimo aspetto, tuttavia, offre anche uno spunto per riflettere sulle tensioni e i conflitti presenti all’interno della “comunità”, evitando così di cadere nell’errore di immaginarla come un tutto unico e uniforme.

Sebbene il panorama dell’imprenditoria bangladese a Torpignattara veda una netta prevalenza di attività a proprietà e conduzione maschile, le attività di proprietà e/o gestite da donne svolgono un ruolo fondamentale nei processi di integrazione e di affermazione della propria presenza all’interno del tessuto sociale e urbano della Capitale che hanno come protagoniste le donne di origine bangladese. Rintracciare la presenza femminile, più rara e defilata rispetto alla componente maschile nel panorama delle attività commerciali di Torpignattara, ci ha portato a conoscere e a incrociare percorsi di vita di alcune donne probashi (1) che vivono o lavorano a Torpignattara.

Oggi vi presentiamo alcuni estratti dalle interviste realizzate nel negozio di Sultana nei mesi tra giugno e settembre 2019. 

02 DSC6178

09 DSC7627

Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana è nata in Bangladesh nel 1972 e, nel 1996, all’età di ventiquattro anni, si trasferisce a Roma, a Torpignattara, dove vive tutt’oggi con il marito, in Italia già prima del suo arrivo, e i due figli. Da circa vent’anni Sultana gestisce un negozio di vestiti e gioielli in via Bordoni 25, a Roma.

La scelta di aprire un negozio di vestiti è stata il culmine di un lungo percorso:

"Quando sono venuta in Italia ho visto che la lingua era troppo diversa, non potevo impararla subito. In Bangladesh ho studiato all’università, psicologia, però qui non potevo lavorare con quello che avevo studiato. Ho pensato a tante cose […] piano piano ho imparato la lingua, e ho lavorato un po’ dentro casa, ho studiato, ho aiutato dei signori italiani. Però tutto il tempo, quando i miei figli andavano a scuola, io mi sentivo morire dentro, cosa potevo fare tutto il giorno? Non ero felice, poi mio marito e io abbiamo pensato a qualche lavoro, qualche negozio. Mio marito prima aveva pensato ad un piccolo alimentari, però dopo no, perché dovevamo vendere per forza l’alcool e non volevamo. Allora io ho pensato di portare quel tipo di vestiti. Abbiamo girato in questa zona di Torpignattara e abbiamo visto tanti paesani, anche pakistani, egiziani, tanti musulmani. Poi abbiamo trovato questo negozio, lo abbiamo comprato. Però non è stato facile, perché serviva la garanzia di un italiano, un prestito in banca, non è facile […]. Abbiamo comprato il negozio nel 2001. Dopo 5-6 mesi avevamo tanti clienti e servivano tanti vestiti, e il commercialista ha detto di fare una cosa grande, ho fatto un carico con l’aereo, mi ha dato una mano con la dogana, poi piano piano, adesso è così […] si lavora bene".

03 DSC7608

04 DSC6177

Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana ci ha raccontato di come l’abito tradizionale rivestisse per lei una grande importanza, descrivendolo come un elemento capace di comunicare la propria appartenenza a un paese, a una cultura, a una società e a una religione; un modo di conoscere il prossimo:

"I vestiti sono molto importanti. I vestiti io penso sono un conoscimento: io sono bangladeshi, io sono musulmana. Questi vestiti dicono “sono musulmana”, mi piace il conoscimento di ognuno dai vestiti. Voi mettete pantaloni e maglietta, questi li mettono in tutto il mondo, solo la faccia dice lei è italiana, lei è peruviana, lei è filippina… però il mio vestito dice no, lei non è italiana, lei è musulmana, lei è bangladeshi [sorride]. Un giorno sono andata a un museo, a Via Nazionale, al Palazzo delle Esposizioni, ho messo il shari, e subito 2 o 3 persone mi hanno detto: “tu sei indiana, bangladeshi?”, io ho detto “sì” [sorride]. Ecco, sono contenta quando mi dicono tu sei bangladeshi tu sei indiana, questo è il mio conoscimento, mi piace questa cosa".

08 DSC7571

Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana ritiene infatti che il negozio sia nato proprio per rispondere a un bisogno di riconoscersi in un contesto di diaspora, alle necessità di esprimere quelli che ha definito “i bisogni della nostra cultura”:

“Questo negozio ha aperto nel 2002 per i bisogni della nostra cultura. I vestiti proprio non c’erano a Roma, quando siamo arrivati noi non c'era niente. Per le nostre feste, il Capodanno o il Ramadan, per esempio, dovevamo mettere i vestiti e qui non c’erano vestiti di tipo indiano […]. Prima ognuno quando andava al nostro paese portava due, tre vestiti. Però non bastava per noi. All’inizio c’era solo poca roba però chi entrava comprava subito, perché erano felici di vedere che i nostri vestiti si trovavano qui in Italia”.

06 DSC7606

Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

I diversi tipi di vestiti che Sultana vende rispecchiano non solo le diverse tradizioni culturali e religiose del suo paese, ma raccontano anche lo scandire dei tempi festivi, rituali e quotidiani e i processi di cambiamento sociale avvenuti nel corso degli anni dovuti a diversi fattori tra cui, ad esempio, le abitudini lavorative:

"Il salwar kamiz, è proprio tradizionale dell’India e del Bangladesh, sono tre pezzi, pantaloni, camicia e foulard, lo mettono proprio tutti. Il shari questa generazione lo mette poco perché è un po’ difficile camminare e lavorare, però pure questo è tradizionale dell’India e del Bangladesh, lo mettono le nostre mamme, le nostre zie, le nostre nonne. Noi lo mettiamo poco perché non posso lavorare, non posso camminarci tutto il giorno, però loro lo mettono tutto il giorno … camminano; pure mia sorella mette il shari tutto il giorno, però qui in Italia è difficile. Pure nel nostro paese adesso è difficile perché tantissime donne sono fuori casa, lavorano, vanno con i bambini a scuola. Mia mamma non veniva a scuola noi, no. Però noi sì, andiamo a scuola con i bambini, però è difficile con il shari, perché c’è la gonna, la blouse, devi girare la stoffa, è difficile. Poi ce n’è un altro, il lehenga, lo mettiamo per le feste, è più elegante. C’è il sharara, pure lo mettiamo per le feste,e pure il gharara, un vestito lungo, lo mettiamo quando ci sono feste grandi, il capodanno, i matrimoni. Poi adesso vendiamo anche questi [indicando quello che indossava], si chiamano abaya. Li vendiamo da tre anni, sono i vestiti dei musulmani, prima non lo vendeva nessuno. Io ho cominciato perché nel 2014 ho fatto il pellegrinaggio in Arabia Saudita, e poi ho pensato posso vendere questo tipo di vestiti […] perché li devo mettere anche io e perché è bello. Non ci sono dal Bangladesh, adesso si vendono bene pure questo tipo di vestiti, vengono tantissime ragazze per comprarli".

12 DSC7658

11 DSC7652

Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Oltre alla vendita di vestiti, tuttavia, il negozio rappresenta per Sultana uno spazio a metà tra il pubblico e privato, che garantisce un punto di riferimento per la sua “comunità” (sebbene non solo) e soprattutto per le donne:

"Qui vengono tantissime persone per parlare, non solo per comprare i vestiti […] è un punto, come si dice, di ritrovo, sì. Tantissime persone insieme, parliamo, facciamo l’iftar (2), badiamo la casa, mangiamo insieme, portiamo qualcosa dentro il negozio, è una cosa, come si dice, un tipo di festa qualche volta! Più per le donne, perché le nostre donne sono dentro casa, non sanno la lingua, e non sanno dove andare, non conoscono niente. Perché i mariti spesso lavorano mattina e tornano la sera, durante la settimana escono solo una volta col marito […] però questo negozio, se vieni qui trovi altre persone, parliamo insieme, è una cosa bella. Ci diamo consigli, perché qui non c'è la nostra famiglia no? Non conosciamo le persone, anche di altri paesi, è diversa pure la cultura, però quando siamo insieme parliamo la nostra lingua, questo è importante, la lingua è importante. Ecco, sono felice perché vengono tantissime persone e parliamo insieme, e pure loro sono felici".

05 DSC7602

Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana ritiene inoltre che il negozio la abbia aiutata ad integrarsi meglio nel tessuto sociale di Torpignattara, in particolare, e italiano, più in generale:

"Da due, tre anni i nostri figli sposano gli italiani e gli italiani sposano i nostri figli, è una cosa bellissima! Io do sempre una mano agli italiani, cosa mettere per essere belli, i gioielli, come ci si deve vestire. Per un’ora o due li aiuto a metterli, e pure loro sono felici. Perché io penso che non devo solo vendere, do una mano perché è un po’ difficile da mettere un shari lehenga. Anche ogni volta che vado alle feste do una mano, devi camminare così, stare così, perché è un po’ difficile… non tutti sono abituati, anche i nostri figli, li hanno messi solo due o tre volte. Prima era difficile lavorare nella zona perché tantissimi italiani non ci capivano, non capivano questi vestiti. Poi piano piano adesso li mettono pure gli italiani […]. Adesso vengono tantissime persone, tantissimi italiani, e questo è importante per noi".

13 DSC7688

 Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Da questi brevi estratti emerge come il negozio venga a costituirsi come uno spazio denso, nel quale processi di integrazione e affermazione della presenza di intrecciano con percorsi di cambiamento e soggettivazione individuali. Seguendo gli oggetti e le persone che vi transitano all’interno, è infatti possibile tracciare quelle relazioni e interazioni che, lungi dall’essere limitate allo spazio fisico del negozio, legano, seppur non senza conflitti, gli abitanti del quartiere – con le loro diverse storie e origini – tra loro e con i luoghi del vivere quotidiano di Torpignattara.

 

(1). Probashi è il termine generalmente utilizzato in riferimento a coloro i quali lasciano il Bangladesh per stabilirsi all’estero.

(2). L’Iftar è il pasto serale che i musulmani consumano per interrompere il digiuno quotidiano durante il mese di Ramadan.

 

Fonti e approfondimenti

Broccolini, A. (2009) "Lavorare a Banglatown. Attività commerciali e relazioni interculturali nella periferia romana di Torpignattara" in M. R. Carli, G. Di Cristoforo Longo, I. Fusco (a cura di) Identità mediterranea ed Europa. Mobilità, migrazioni, relazioni interculturali, Napoli: CNR-ISSM;

Broccolini, A. (2017) “Patrimonio e mutamento a Tor Pignattara/Banglatown. Voci dai nuovi e vecchi abitanti”, in A. Broccolini, V. Padiglione (a cura di) Ripensare i margini. L’ecomuseo Casilino per la periferia di Roma, Roma: Aracne editrice;

Ficacci, S. (2017) “Da periferia a quartieri: la costruzione di una comunità urbana. Raccontare la storia e la memoria dell’area orientale di Roma nel Novecento”, in A. Broccolini, V. Padiglione (a cura di) Ripensare i margini. L’ecomuseo Casilino per la periferia di Roma, Roma: Aracne editrice;

Pompeo, F. (2011) “Introduzione”, in F. Pompeo (a cura di) Pigneto-Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in una periferia storica romana, Roma: Meti;

Priori, A. (2012) Romer Probashira. Reti sociali e itinerari transnazionali di bangladesi a Roma, Roma: Meti;

Vertovec, S. (2007) “Super-diversity and its implications”, Ethnic and Racial Studies, 30(6): 1024-1054.

 

  • * * * *     * * * *     * * * *      * * * *
  • Gruppo di ricerca: Rosa Anna Di Lella (funzionario demoetnoantropologo dell’ICPi, coordinamento), Massimo Cutrupi (Fotografo dell'ICPi), Claudia Campisano (Dottoranda in antropologia culturale - Dipartimento Beni culturali e ambientali, Università degli Studi di Bologna).

  • La ricerca è realizzata in collaborazione con il gruppo di lavoro Co.Heritage dell'Ecomuseo Casilino ad duas lauros: 

  • http://www.ecomuseocasilino.it/coheritage/2018/02/20/il-progetto-co-heritage-2018/

 

Torna in alto
Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
Metro Linea B (EUR Fermi) Bus 30 Express, 170, 671, 703, 707, 714, 762, 765, 791
Amministrazione
trasparente

banner amm tra small

Servizio VI
Tutela del patrimonio
DEA e immateriale

logo ministero

Geoportale della
Cultura Alimentare
geoportale
Seguici su
facebook   twitter
Insta   youtube
logomucivexportsmall
amuseonazatp