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Articoli filtrati per data: Aprile 2020

#LACULTURANONSIFERMA. Narrazioni da "Italia dalle molte culture" - Sultana Fashion. Un negozio di vestiti e gioielli a Torpignattara (Roma) di Claudia Campisano e Rosa Anna Di Lella

 

Anche con la narrazione di oggi vi proponiamo alcuni frammenti di una ricerca in corso: estratti di interviste etnografiche e di reportage fotografici realizzati nell’ambito della ricerca su “Migrazione e imprenditorialità femminile” a Roma. Più nello specifico, ci addentreremo nel quartiere di Torpingattara, situato nel quadrante orientale della “periferia” romana.

La storia di questo luogo, che fu anche un importante teatro della Resistenza, è caratterizzata da uno sviluppo urbanistico peculiare e da una fase di svuotamento demografico seguita, in tempi più recenti, da una fase di ripopolamento che ha visto protagonisti cittadini provenienti in gran parte dal continente asiatico (vedi: Pompeo 2011, Ficacci 2017, Broccolini 2010, 2017) e, in particolare, dal Bangladesh. Questi processi hanno dato luogo ad un contesto che potrebbe essere definito di “superdiversità” (Vertovec 2007).

In tempi di normalità, passeggiando per le strade di Torpignattara, si viene immediatamente colpiti dalla forte presenza di cittadini provenienti dal Bangladesh i quali, nel corso degli anni, hanno aperto una serie di attività in quella che è stata ribattezzata la “Banglatown” romana. La preponderanza di uomini e donne bangladesi, che si sono qui specializzati nel settore della ristorazione e del commercio, era stata evidenziata, già nel 2009, da una precedente ricerca sul territorio condotta da Alessandra Broccolini (2009), la quale ha mappato e riflettuto sulla grande “vitalità commerciale” del quartiere e incontrato proprietari e gestori di attività commerciali di diverse “comunità” di più o meno recente migrazione.

Nel quadro derivante da questo complesso intreccio di provenienze, ibridazioni e conflittualità abbiamo voluto seguire il tema specifico dell’imprenditorialità femminile, che ci ha portato a osservare più da vicino quelle attività commerciali – soprattutto negozi di abbigliamento – gestiti da donne di origine bangladese. Muovendo dall’esempio delle attività gestite da donne bangladesi nel quartiere di Torpignattara, e seguendo le persone, gli oggetti e la manifestazioni immateriali che li attraversano e vi ruotano attorno, la ricerca vuole restituire un’immagine, seppur parziale, delle geometrie variabili che lo spazio urbano può assumere per queste donne nel processo di renderlo in un certo senso “casa”.

Uno degli obiettivi della ricerca è infatti quello di mostrare come le attività commerciali gestite da imprenditrici straniere rappresentino densi spazi di socialità percorsi da processi di affermazione della propria presenza all’interno del tessuto sociale e territoriale del contesto romano. In contesti di migrazione, i negozi divengono in molti casi importanti nodi sociali, dove gli individui possono trovare risorse, sostegno e informazioni, senza dover necessariamente passare per i canali istituzionali. All’occasione i retrobottega diventano anche spazi abitativi, dove alcuni bangladesi trascorrono parte delle loro vite a Roma, e spazi all’interno dei quali portare avanti iniziative sociali e politiche (Priori 2012). Proprio quest’ultimo aspetto, tuttavia, offre anche uno spunto per riflettere sulle tensioni e i conflitti presenti all’interno della “comunità”, evitando così di cadere nell’errore di immaginarla come un tutto unico e uniforme.

Sebbene il panorama dell’imprenditoria bangladese a Torpignattara veda una netta prevalenza di attività a proprietà e conduzione maschile, le attività di proprietà e/o gestite da donne svolgono un ruolo fondamentale nei processi di integrazione e di affermazione della propria presenza all’interno del tessuto sociale e urbano della Capitale che hanno come protagoniste le donne di origine bangladese. Rintracciare la presenza femminile, più rara e defilata rispetto alla componente maschile nel panorama delle attività commerciali di Torpignattara, ci ha portato a conoscere e a incrociare percorsi di vita di alcune donne probashi (1) che vivono o lavorano a Torpignattara.

Oggi vi presentiamo alcuni estratti dalle interviste realizzate nel negozio di Sultana nei mesi tra giugno e settembre 2019. 

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana è nata in Bangladesh nel 1972 e, nel 1996, all’età di ventiquattro anni, si trasferisce a Roma, a Torpignattara, dove vive tutt’oggi con il marito, in Italia già prima del suo arrivo, e i due figli. Da circa vent’anni Sultana gestisce un negozio di vestiti e gioielli in via Bordoni 25, a Roma.

La scelta di aprire un negozio di vestiti è stata il culmine di un lungo percorso:

"Quando sono venuta in Italia ho visto che la lingua era troppo diversa, non potevo impararla subito. In Bangladesh ho studiato all’università, psicologia, però qui non potevo lavorare con quello che avevo studiato. Ho pensato a tante cose […] piano piano ho imparato la lingua, e ho lavorato un po’ dentro casa, ho studiato, ho aiutato dei signori italiani. Però tutto il tempo, quando i miei figli andavano a scuola, io mi sentivo morire dentro, cosa potevo fare tutto il giorno? Non ero felice, poi mio marito e io abbiamo pensato a qualche lavoro, qualche negozio. Mio marito prima aveva pensato ad un piccolo alimentari, però dopo no, perché dovevamo vendere per forza l’alcool e non volevamo. Allora io ho pensato di portare quel tipo di vestiti. Abbiamo girato in questa zona di Torpignattara e abbiamo visto tanti paesani, anche pakistani, egiziani, tanti musulmani. Poi abbiamo trovato questo negozio, lo abbiamo comprato. Però non è stato facile, perché serviva la garanzia di un italiano, un prestito in banca, non è facile […]. Abbiamo comprato il negozio nel 2001. Dopo 5-6 mesi avevamo tanti clienti e servivano tanti vestiti, e il commercialista ha detto di fare una cosa grande, ho fatto un carico con l’aereo, mi ha dato una mano con la dogana, poi piano piano, adesso è così […] si lavora bene".

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana ci ha raccontato di come l’abito tradizionale rivestisse per lei una grande importanza, descrivendolo come un elemento capace di comunicare la propria appartenenza a un paese, a una cultura, a una società e a una religione; un modo di conoscere il prossimo:

"I vestiti sono molto importanti. I vestiti io penso sono un conoscimento: io sono bangladeshi, io sono musulmana. Questi vestiti dicono “sono musulmana”, mi piace il conoscimento di ognuno dai vestiti. Voi mettete pantaloni e maglietta, questi li mettono in tutto il mondo, solo la faccia dice lei è italiana, lei è peruviana, lei è filippina… però il mio vestito dice no, lei non è italiana, lei è musulmana, lei è bangladeshi [sorride]. Un giorno sono andata a un museo, a Via Nazionale, al Palazzo delle Esposizioni, ho messo il shari, e subito 2 o 3 persone mi hanno detto: “tu sei indiana, bangladeshi?”, io ho detto “sì” [sorride]. Ecco, sono contenta quando mi dicono tu sei bangladeshi tu sei indiana, questo è il mio conoscimento, mi piace questa cosa".

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana ritiene infatti che il negozio sia nato proprio per rispondere a un bisogno di riconoscersi in un contesto di diaspora, alle necessità di esprimere quelli che ha definito “i bisogni della nostra cultura”:

“Questo negozio ha aperto nel 2002 per i bisogni della nostra cultura. I vestiti proprio non c’erano a Roma, quando siamo arrivati noi non c'era niente. Per le nostre feste, il Capodanno o il Ramadan, per esempio, dovevamo mettere i vestiti e qui non c’erano vestiti di tipo indiano […]. Prima ognuno quando andava al nostro paese portava due, tre vestiti. Però non bastava per noi. All’inizio c’era solo poca roba però chi entrava comprava subito, perché erano felici di vedere che i nostri vestiti si trovavano qui in Italia”.

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

I diversi tipi di vestiti che Sultana vende rispecchiano non solo le diverse tradizioni culturali e religiose del suo paese, ma raccontano anche lo scandire dei tempi festivi, rituali e quotidiani e i processi di cambiamento sociale avvenuti nel corso degli anni dovuti a diversi fattori tra cui, ad esempio, le abitudini lavorative:

"Il salwar kamiz, è proprio tradizionale dell’India e del Bangladesh, sono tre pezzi, pantaloni, camicia e foulard, lo mettono proprio tutti. Il shari questa generazione lo mette poco perché è un po’ difficile camminare e lavorare, però pure questo è tradizionale dell’India e del Bangladesh, lo mettono le nostre mamme, le nostre zie, le nostre nonne. Noi lo mettiamo poco perché non posso lavorare, non posso camminarci tutto il giorno, però loro lo mettono tutto il giorno … camminano; pure mia sorella mette il shari tutto il giorno, però qui in Italia è difficile. Pure nel nostro paese adesso è difficile perché tantissime donne sono fuori casa, lavorano, vanno con i bambini a scuola. Mia mamma non veniva a scuola noi, no. Però noi sì, andiamo a scuola con i bambini, però è difficile con il shari, perché c’è la gonna, la blouse, devi girare la stoffa, è difficile. Poi ce n’è un altro, il lehenga, lo mettiamo per le feste, è più elegante. C’è il sharara, pure lo mettiamo per le feste,e pure il gharara, un vestito lungo, lo mettiamo quando ci sono feste grandi, il capodanno, i matrimoni. Poi adesso vendiamo anche questi [indicando quello che indossava], si chiamano abaya. Li vendiamo da tre anni, sono i vestiti dei musulmani, prima non lo vendeva nessuno. Io ho cominciato perché nel 2014 ho fatto il pellegrinaggio in Arabia Saudita, e poi ho pensato posso vendere questo tipo di vestiti […] perché li devo mettere anche io e perché è bello. Non ci sono dal Bangladesh, adesso si vendono bene pure questo tipo di vestiti, vengono tantissime ragazze per comprarli".

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Oltre alla vendita di vestiti, tuttavia, il negozio rappresenta per Sultana uno spazio a metà tra il pubblico e privato, che garantisce un punto di riferimento per la sua “comunità” (sebbene non solo) e soprattutto per le donne:

"Qui vengono tantissime persone per parlare, non solo per comprare i vestiti […] è un punto, come si dice, di ritrovo, sì. Tantissime persone insieme, parliamo, facciamo l’iftar (2), badiamo la casa, mangiamo insieme, portiamo qualcosa dentro il negozio, è una cosa, come si dice, un tipo di festa qualche volta! Più per le donne, perché le nostre donne sono dentro casa, non sanno la lingua, e non sanno dove andare, non conoscono niente. Perché i mariti spesso lavorano mattina e tornano la sera, durante la settimana escono solo una volta col marito […] però questo negozio, se vieni qui trovi altre persone, parliamo insieme, è una cosa bella. Ci diamo consigli, perché qui non c'è la nostra famiglia no? Non conosciamo le persone, anche di altri paesi, è diversa pure la cultura, però quando siamo insieme parliamo la nostra lingua, questo è importante, la lingua è importante. Ecco, sono felice perché vengono tantissime persone e parliamo insieme, e pure loro sono felici".

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana ritiene inoltre che il negozio la abbia aiutata ad integrarsi meglio nel tessuto sociale di Torpignattara, in particolare, e italiano, più in generale:

"Da due, tre anni i nostri figli sposano gli italiani e gli italiani sposano i nostri figli, è una cosa bellissima! Io do sempre una mano agli italiani, cosa mettere per essere belli, i gioielli, come ci si deve vestire. Per un’ora o due li aiuto a metterli, e pure loro sono felici. Perché io penso che non devo solo vendere, do una mano perché è un po’ difficile da mettere un shari lehenga. Anche ogni volta che vado alle feste do una mano, devi camminare così, stare così, perché è un po’ difficile… non tutti sono abituati, anche i nostri figli, li hanno messi solo due o tre volte. Prima era difficile lavorare nella zona perché tantissimi italiani non ci capivano, non capivano questi vestiti. Poi piano piano adesso li mettono pure gli italiani […]. Adesso vengono tantissime persone, tantissimi italiani, e questo è importante per noi".

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 Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Da questi brevi estratti emerge come il negozio venga a costituirsi come uno spazio denso, nel quale processi di integrazione e affermazione della presenza di intrecciano con percorsi di cambiamento e soggettivazione individuali. Seguendo gli oggetti e le persone che vi transitano all’interno, è infatti possibile tracciare quelle relazioni e interazioni che, lungi dall’essere limitate allo spazio fisico del negozio, legano, seppur non senza conflitti, gli abitanti del quartiere – con le loro diverse storie e origini – tra loro e con i luoghi del vivere quotidiano di Torpignattara.

 

(1). Probashi è il termine generalmente utilizzato in riferimento a coloro i quali lasciano il Bangladesh per stabilirsi all’estero.

(2). L’Iftar è il pasto serale che i musulmani consumano per interrompere il digiuno quotidiano durante il mese di Ramadan.

 

Fonti e approfondimenti

Broccolini, A. (2009) "Lavorare a Banglatown. Attività commerciali e relazioni interculturali nella periferia romana di Torpignattara" in M. R. Carli, G. Di Cristoforo Longo, I. Fusco (a cura di) Identità mediterranea ed Europa. Mobilità, migrazioni, relazioni interculturali, Napoli: CNR-ISSM;

Broccolini, A. (2017) “Patrimonio e mutamento a Tor Pignattara/Banglatown. Voci dai nuovi e vecchi abitanti”, in A. Broccolini, V. Padiglione (a cura di) Ripensare i margini. L’ecomuseo Casilino per la periferia di Roma, Roma: Aracne editrice;

Ficacci, S. (2017) “Da periferia a quartieri: la costruzione di una comunità urbana. Raccontare la storia e la memoria dell’area orientale di Roma nel Novecento”, in A. Broccolini, V. Padiglione (a cura di) Ripensare i margini. L’ecomuseo Casilino per la periferia di Roma, Roma: Aracne editrice;

Pompeo, F. (2011) “Introduzione”, in F. Pompeo (a cura di) Pigneto-Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in una periferia storica romana, Roma: Meti;

Priori, A. (2012) Romer Probashira. Reti sociali e itinerari transnazionali di bangladesi a Roma, Roma: Meti;

Vertovec, S. (2007) “Super-diversity and its implications”, Ethnic and Racial Studies, 30(6): 1024-1054.

 

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  • Gruppo di ricerca: Rosa Anna Di Lella (funzionario demoetnoantropologo dell’ICPi, coordinamento), Massimo Cutrupi (Fotografo dell'ICPi), Claudia Campisano (Dottoranda in antropologia culturale - Dipartimento Beni culturali e ambientali, Università degli Studi di Bologna).

  • La ricerca è realizzata in collaborazione con il gruppo di lavoro Co.Heritage dell'Ecomuseo Casilino ad duas lauros: 

  • http://www.ecomuseocasilino.it/coheritage/2018/02/20/il-progetto-co-heritage-2018/

 

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#LACULTURANONSIFERMA #VISIONIDAITERRITORI. CO.HERITAGE 2020. Il patrimonio culturale per lo sviluppo, il dialogo e l'integrazione

Oggi inauguriamo una nuova rubrica: #VISIONIDAITERRITORI, un percorso attraverso progetti di tutela, ricerca e valorizzazione sui beni demoetnoantropologici e immateriali, promossi da musei ed ecomusei, soprintendenze e poli museali. Un modo per aprire una finestra sulle tante e diversificate attività che popolano il nostro territorio nazionale. Iniziamo con un progetto dell'Ecomuseo Casilino ad duas lauros di Roma. 

CO.HERITAGE 2020. Il patrimonio culturale per lo sviluppo, il dialogo e l'integrazione

Progetto a cura di: Ecomuseo Casilino ad duas lauros. Team di ricerca Alessandra Broccolini, Stefania Favorito, Stefania Ficacci, Claudio Gnessi, Romina Peritore, Carmelo Russo. Con la collaborazione di Giulia Papa, Giorgio Silvestrelli, Carla Ottoni, Flavio Lorenzoni, Daniele Quadraccia, Cristina Pantellaro e Francesca Castano, Vega Guerrieri.

Premessa
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo afferma che “tutte le persone hanno diritto alla piena partecipazione alla vita culturale” di un territorio. Una partecipazione, come chiarisce poi la Convenzione di Faro, da intendersi non solo come diritto alla fruizione del patrimonio culturale disponibile (sia esso materiale o immateriale), ma anche come necessità di partecipare al suo arricchimento.


Il progetto
Ricerca, partecipazione, innovazione, sostenibilità, formazione, intercultura, governance sono parole che hanno accompagnato la nostra associazione fin dai primi momenti della sua costituzione. Nel 2011 l’idea di realizzare un ecomuseo urbano, nel comprensorio territoriale di Roma-Est, quello Casilino (che comprende i quartieri Pigneto, Tor Pignattara, Marranella, Quadraro, Centocelle, Villa Gordiani) ritenuto dalle istituzioni socialmente ed economicamente marginale, è nata dall’incontro sul territorio di due attori - un team di studiosi di differenti discipline e la cittadinanza attiva – che si trovavano di fronte all’esigenza di costituire un fronte comune per resistere, principalmente, a quell’attacco al diritto di ogni cittadino di godere la piena partecipazione al patrimonio culturale che rappresenta il suo habitus. I progetti che ne sono seguiti hanno sempre mantenuto lo sguardo su questo obiettivo di tutela, ma hanno anche posto numerose domande sugli strumenti di ricerca e di restituzione da adottare, sulle tematiche da affrontare, sui generi e sulle generazioni da coinvolgere.
Domande che si sono tramutate in princìpi guida, che oggi costituiscono gli elementi di narrazione del macroprogetto “Co.Heritage” che, partendo dall’idea che nessuno è ospite del territorio che abita, si pone l’obiettivo di fare in modo che tutte le comunità presenti (senza distinzione alcuna) abbiano la possibilità di salvaguardare, fruire, implementare e promuovere il patrimonio culturale locale. Non quindi una posizione difensiva della ricerca, con l’esclusivo obiettivo di tutelare “ingabbiando” gli elementi costituenti il patrimonio, bensì una funzione attiva, capace di agire nella quotidianità delle comunità. Ci sembra così di accogliere l’invito espresso dalla Convenzione di Faro, ad intendere il patrimonio culturale non come uno spazio di difesa di una presunta identità immutabile, ma come ambito in cui realizzare il dialogo interculturale e intergenerazionale, strumento di valorizzazione delle differenze, mezzo attraverso cui coinvolgere gli attori locali in processi di co-creazione di nuovi modelli di interpretazione, narrazione, governance, pianificazione e sviluppo del territorio.
Questo perché, coerentemente ai documenti sopra citati, la conoscenza del patrimonio culturale è un reale strumento di crescita personale dell’individuo e, di conseguenza, un mezzo concreto per costruire società più inclusive, giuste e democratiche. Questo ragionamento è ancora più importante nei contesti marginali e periferici, laddove purtroppo assistiamo quotidianamente a fenomeni di disgregazione sociale, conflitto e sfilacciamento dei principi democratici basilari. In queste realtà di frontiera, diventa cruciale la ricostruzione di un tessuto culturale comune, proprio a partire da quel complesso stratificato di valori culturali e storici che possono costituire la piattaforma da cui procedere alla costruzione di una nuovo orizzonte sociale democratico e inclusivo.
Attraverso il progetto Co.Heritage, dal 2017 abbiamo avviato una serie di azioni finalizzate a migliorare l’accesso al patrimonio culturale locale, accompagnando le diverse comunità (in particolare anziani, bambini/e e migranti) a scoprire, studiare e a raccontare il territorio, profilando l’attività a seconda delle tematiche che annualmente affiorano dal confronto con le esigenze dei destinatari coinvolti. I luoghi del quotidiano diventano così non solo spazi da attraversare, ma anche luoghi su cui agire, cornice e contenuto di una nuova narrazione al contempo personale e collettiva.
La conoscenza, lo studio e il racconto del patrimonio culturale diventano quindi il motore di un vero e proprio percorso di cittadinanza, che parte proprio dalla riconquista del diritto di essere parte attiva nello sviluppo del territorio. Non più oggetto delle narrazioni altrui, ma soggetti narranti della propria identità, attori del territorio capaci di formulare visioni sullo sviluppo del proprio spazio urbano e quindi orientati a impattare positivamente le policy locali. Attraverso le nostri azioni, quindi, ci poniamo l’obiettivo di costruire comunità più consapevoli e dialoganti, aumentando il senso di appartenenza al proprio territorio e il desiderio di partecipare attivamente alla sua vita civile, culturale e democratica.


Le nostre attività
Chiunque partecipi alle attività promosse dal progetto Co.Heritage accoglie l’idea che un ecomuseo trovi il pieno adempimento nella partecipazione alla vita intima e pubblica delle comunità a cui appartiene, legato da un patto di solidarietà i soggetti che lo compongono, un accordo che consente ad ogni attore di partecipare e promuovere le attività di ricerca, di tutela, di fruizione, di arricchimento e di valorizzazione. Non si promuovono quindi solo attività dirette, ma si accolgono tutte quelle azioni che altri soggetti – singoli cittadini, organizzazioni, imprese artistiche e culturali – esercitano sui territori e nelle comunità che appartengono all’orizzonte dell’Ecomuseo Casilino. Potremmo dire che il progetto Co.Heritage sia nato per promuovere una narrazione corale, in parole più semplici, una condivisione partecipata attraverso la quale ogni attività rappresenta uno scambio di risorse culturali paritario.

Nei tre anni di attività abbiamo incontrato qualche migliaio di persone. Il numero così indefinito sembra enorme, ma ci muoviamo in uno spazio urbano che accoglie circa 170.000 persone (se guardiamo solo ai residenti) e così ci convinciamo che il lavoro fatto fin qui sia solo una parte, solo l’inizio di un progetto molto più lungo e complesso. Tre anni ci sono però serviti per comprendere meglio quali azioni siano sentite come più urgenti dalle comunità: la ricerca di un tessuto culturale che possa diventare un mosaico di identità; la salvaguardia del patrimonio materiale e immateriale artistico, storico e paesaggistico del comprensorio Casilino; la partecipazione della cittadinanza in azioni di rigenerazione urbana e sociale; la narrazione secondo prospettive di storytelling che vengono dal basso e che ridefiniscono le identità imposte da soggetti esterni; la formazione nella ricerca e nella valorizzazione del patrimonio culturale, per il necessario passaggio di testimone fra generazioni. 

Tutte queste azioni si concretizzano in attività svolte sul territorio. Ogni anno Co.Heritage muta a seconda delle necessità e degli stimoli che emergono da tutti i partecipanti, ma restano eventi di riferimento costanti, come le Domeniche dell’Ecomuseo – percorsi guidati che consentono la conoscenza delle risorse culturali presenti nel territorio e la restituzione delle attività di ricerca dei singoli gruppi – le Giornate del Territorio – evento annuale che promuove tavoli di confronto con altre realtà similari presenti in Italia e in Europa – il progetto Inciampi nella memoria – evento annuale promosso in collaborazione con l’Associazione Arte in Memoria per la posa delle “pietre d’inciampo” a ricordo dei deportati dal nazifascismo. Su queste attività si innestano poi i tanti progetti che singoli ricercatori o gruppi di studio portano avanti per singole discipline scegliendo di pari passo le modalità di restituzione e fruizione dei risultati.
Tutte le attività di ricerca possono essere approfondite tramite il web, attraverso il sito www.ecomuseocasilino.it, la pagina facebook Ecomuseo Casilino ad duas lauros, Il canale You Tube Ecomuseo Casilino.


I due documentari – realizzati dai filmakers Greca Campus e Piero Tacconi - sono il resoconto audiovisivo del lavoro svolto dal progetto Co.Heritage nel 2018 e 2019.

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Maschere e mascherine. Fenomenologia del distanziamento sociale. Di Alessandra Broccolini (SIMBDEA/Sapienza)

Maschere e mascherine. Fenomenologia del distanziamento sociale.

All'inizio sembrava uno scherzo. Mettere il naso fuori dalla porta di casa e vedere il paesaggio consueto del proprio quartiere deformato, improvvisamente vuoto come non lo si era visto. Niente macchine, niente negozi, quasi nessuno per la strada, niente rumore, niente smog, ma soprattutto il segno più straniante era vedere lo spazio dominato da questi strani oggetti alieni con i quali stiamo imparando a convivere, che sono divenuti strumento quotidiano del cosiddetto "distanziamento sociale": le mascherine. All'inizio mi sembrava uno scherzo, uscire e vedere che là fuori ero l'unica a non portarle, vedere i molti occhi uscire da queste "museruole" dalle forme e dai colori più disparati, a volte nere e pesanti, simili all'armamentario di un inquietante immaginario fetish sadomaso, a volte colorate, gialle, blu, verdi, oppure candide e "sanitarie", celesti, bianche, morbide. Altre volte ancora, "tecnologiche", con mirabolanti filtri colorati, rosso su bianco, azzurro su bianco, dalle forme appuntite come becchi di anatre o di cigni bianchi.

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Foto de "Il Corriere" del 04/04/2020

Volontari che hanno costruito l'ospedale da campo di Bergamo 

 

Un campionario ricco in un paesaggio umano inquietante, apparentemente dominato dalla paura e dalla precauzione di evitare gli altri a tutti i costi, più per non contagiarsi che per non contagiare. Ma sopratutto, oggetti introvabili, invidiati e ormai costosissimi, ordinati e mai arrivati, più spesso venduti sottobanco, oggetti del desiderio. Un giorno mentre facevo la mia consueta fila al supermercato (ormai le uniche occasioni per uscire) un signore di origine cinese (lo capisco dal taglio degli occhi perché è rigorosamente "mascherinato") ne ha regalate un pacchetto da dieci a ciascuno di noi nella fila. Ce le ha date ed è andato via di fretta, come mosso da una missione da compiere. Siamo tutti rimasti un po' sbalorditi con questi pacchetti in mano, un dono inatteso, una generosità mai vissuta in strada da uno sconosciuto.

 

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foto dal web 

 

Ricostruire la "vita sociale" delle mascherine al tempo del "distanziamento sociale", parafrasando un noto lavoro dell'antropologo angloindiano Arjun Appadurai, sarà probabilmente l'esercizio che alcuni di noi faranno nei prossimi mesi. Da oggetto di nicchia lontano dalla vita quotidiana (solo in paesi lontani lo vedevamo usato saltuariamente nello spazio pubblico), oppure simbolo del mondo medico-sanitario, dove al più lo trovavi dal dentista o nei nail centers per la cura delle unghie, la mascherina è divenuto un dispositivo di uso quotidiano che si è guadagnato un suo spazio nella sfera domestica, come in quella pubblica, da appendere all'attaccapanni di casa, ad un angolo della sedia, o nascosto in luogo riparato della casa. Oggetto necessario, ma anche ironico, eccessivo, superaccessoriato. In brevissimo tempo il mercato (occidentale?) lo ha fagocitato, lo ha fatto proprio, ce lo ha restituito trasformato, rivisitato, reinterpretato, investito di significati, scelte, gusti e distinzioni sociali. Dal fai-da-te della sartoria casalinga, da distribuire entro i circuiti di dono vicinale, all'alta moda (la mascherina di Fendi venduta a 190 euro), dalla carta da forno o lo scottex spillato dietro le orecchie, o lo scampolo di una vecchia camicia, alle mascherine sartoriali, dalle mitiche e introvabili FFP3 a quelle colorate di stoffa, per bambini e non. Ci sono anche mascherine per cani e gatti. La mascherina è un oggetto quindi totale, che sta velocemente scalando la classifica del nostro quotidiano, tanto velocemente quanto veloce è la diffusione del virus che dovrebbe fermare.

Ma "mascherina" è diminutivo di "maschera" e la maschera per l'antropologo evoca ben altri scenari, tutt'altro che apocalittici e contaminati, anche se pur sempre eccessivi e finanche "diabolici" se pensiamo alle condanne della chiesa nei confronti del mascheramento, o all'ostilità dei poteri costituiti per la maschera nel mondo folklorico; evoca scenari rituali complessi, performativi, espressivi, creativi; evoca momenti calendariali precisi, i carnevali, scenari di possessione, di comunicazione con il sovrannaturale, ma anche il mascheramento diffuso che percorre il contemporaneo con la fuoriuscita dell'eccessivo nel tempo libero.

 

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Carnevale di Serino, foto di Alessandra Broccolini (2005)

 

Il diminuitivo nel quale questo oggetto è imprigionato esprime una sua collocazione semantica e di uso su un piano differente, ma non lo sottrae al gioco dell'eccesso della maschera e all'occultamento del volto, in una nuova fase di ridefinita identità per un manufatto non più condannato, non più diabolico o sinonimo di falsità, ma simbolo questa volta di ragione, di resistenza al "male", al contagio. Con la mascherina la maschera "si fa volto" ma quando ciò accade, come suggerisce Vincenzo Padiglione "la stagione del cambiamento appare alle porte: emergono ibridi, si rendono immaginabili mutazioni antropologiche. Segno che l’evoluzione procede verso orizzonti imprecisati".

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Il Diavolo di Tufara, foto di E. De Simoni e D. D'Alessandro 2005 ©ICPI

 

Ricordo il momento in cui ho dovuto fare la scelta di metterla, dopo un periodo di resistenza, la difficoltà di reperirle, il pellegrinaggio nelle farmacie a "chiedere" e la soddisfazione quando finalmente le ho trovate sottobanco in un negozio bangladese del mio quartiere. Ricordo la percezione di "sacralità" del primo giorno, la prima uscita, lo straniamento, ma anche la veloce abitudine che ho fatto al "mascherinamento". Cosa faccio: la metto ? Sentire il proprio respiro, sentirsi uguali agli altri con questa pseudo-protesi facciale. La maschera coincideva ormai con il mio volto pubblico.

Ma è legittimo domandarsi, al di là della creatività individuale o collettiva (come ad esempio le produzioni fai-da-te dei laboratori tessili donate al paese), se e in che modo cambiano o stanno cambiando le relazioni sociali e interpersonali con queste nuove protesi, oggetti ossimorici e paradossali delle politiche del distanziamento sociale ? Che ne è delle relazioni quando non si vedono i volti ? Possiamo considerare questi manufatti una forma di costrizione evitante e inibente delle relazioni, o uno spazio agentivo che rimodula e rimette in gioco le relazioni attraverso una diversa forma comunicativa ? Come si rimodulano le prossemiche, le cinesiche (per citare campi a noi cari) con l'entrata in scena di questa protesi facciale "mascherante" che diventa volto ? E come viene interpretata la scelta (quando non è assoluta necessità sanitaria) di non indossarle ? E ancora, in che modo stanno circolando i vari "modelli" tra la gente ? Quali reti di "approvvigionamento" si sono attivate a livello locale e familiare ? Ma più in generale, quali reti del mercato globale si sono attivate e chi ne sta usufruendo, chi ci sta guadagnando ?

La globalizzazione dei mercati ha reso possibile l'attivarsi rapido e simultaneo di diversi macroattori che hanno saturato una offerta (a fronte di una domanda esponenziale) che solo in parte è stata intercettata dai bisogni dell'approvvigionamento medico-sanitario, dando luogo ad una rete di possibilità di reperimento e di circolazione (e anche di dono), che "sulla strada" diventano spazio per l'esibizione di scelte, rivelatori di condizioni economiche, ma anche di reti di contatti personali (per trovarle sottobanco o riceverle in dono) che non sempre coincidono con i parametri classici delle condizioni economiche e sociali. Io stessa ho avvisato la mia rete di amici del quartiere quando le ho trovate.  

Un esercizio etnografico basato sull'osservazione del vissuto quotidiano riserva sorprese. Il primo elemento che si offre all'evidenza è la "normalità", la velocità con la quale l'umanità si adatta (ahinoi?) al nuovo volto delle relazioni sociali nell'era (sarà un'era ?) del distanziamento. Ma si aprono anche inedite dimensioni relazionali, laddove ciò che "prima" era considerato altro, discriminante, discusso e discutibile, diventa ora buona pratica dettata dalle norme (non sempre coerenti e lineari) medico-sanitarie. Diverse mie vicine di casa, in un quartiere con un alta componente di residenti di origine asiatica e mussulmana, sono solite coprirsi il volto con una sciarpa colorata dal colore variabile, una sciarpa spesso alla moda, molto curata, che lascia visibili solo gli occhi, di donne che per questo nella sfera pubblica delle pratiche quotidiane sono soggette a facili esposizioni, imbarazzi relazionali, sbuffi da parte degli "altri", di quelli che vanno "a viso scoperto". Tutti disagi e intolleranze che ora sono completamente saltati, ora che tutti (o quasi) mostriamo in pubblico solo i nostri occhi, ora che a chi non lo fa è forse riservata la stessa sorte di coloro che "prima" erano bersaglio di disagi e (pre)giudizi per il loro apparire in pubblico. Sono soprattutto gli occhi a beneficiare di questo nuovo corso del distanziamento, ora che sembra di essere stati catapultati in uno strano villaggio di alcuni secoli fa, quando il distanziamento tra i generi e le distanze sociali erano rigidi e dettati da regole morali e sociali. Occhi che tornano centrali nella comunicazione. Come si fa a vedere se una persona sta ridendo, per esempio, se non ne puoi vedere la bocca, ma solo gli occhi? E se invece si è alterati per qualche motivo, gli altri lo potranno capire dagli occhi, o da quelle piccole rughine della fronte? Ma non sono le stesse rughe che vengono fuori quando si ride ? Una competenze del genere ci è sconosciuta, dobbiamo fare ancora pratica e sviluppare dei codici condivisi che non lascino spazio a malintesi. Chi ci sarà dietro quella bellissima maschera a becco di cigno ? Chissà poi se si rimorchia di più o di meno dietro una mascherina, o se si viene trattati con più gentilezza in un luogo pubblico, in un negozio, all'ufficio postale, ora che il nostro nuovo volto è visibile solo parzialmente e lo si può solo immaginare dietro la garza. Anche la prossemica offre spunti interessanti. La strada si riconfigura sulla base di un distanziamento che cancella alcune pratiche ma ne definisce altre. Si parla a distanza, si accelera il passo per superare qualcuno per evitare di camminargli a fianco, si compiono con il corpo torsioni indescrivibili per evitare di entrare nel raggio di azione di chi ci viene incontro per la strada, ed è incredibile come sia facile invece riaggregarsi non appena ci si distrae un po', al supermercato, con la signora che ti passa vicino (ma quanto vicino?) per prendere il latte al bancone, mentre tu sei davanti a lei, o nel corridoio dello stesso supermercato, o al bancone del pane, del pesce. Ora che siamo tutti più attenti ai corpi degli altri, che forse "prima" avevamo ignorato, siamo tutti più vigili alle nostre come alle altrui traiettorie, come api alla ricerca del volo perfetto.

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A. Appadurai, The social life of things: commodities in cultural perspective, Cambridge University Press, 1986.

V. Padiglione, "Della maschera. Tracce da un'etnografia della cultura giovanile", in Archivio di Etnografia, n. 1-2, 2016, pp. 29-33.

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#LACULTURANONSIFERMA Le parole chiave del patrimonio im-materiale: Conservazione e restauro dei beni demoetnoantropologici (a cura di Anna Sicurezza)

 

 

Preservare la testimonianza delle culture popolari europee ed extra-europee presenta in parte dei punti di affinità con le problematiche conservative delle altre tipologie di beni culturali, e in particolare dell’arte contemporanea: i materiali tangibili costitutivi dei beni DEA sono estremamente vari, e richiedono quindi approfondite competenze in più ambiti specialistici del restauro. Si spazia dal tessuto alla ceramica, dal legno alla cartapesta, dal metallo alla plastica, dai materiali lapidei a quelli organici, spesso compresenti a un livello di complessa polimatericità. Si pensi ad esempio ai costumi popolari, agli attrezzi da lavoro, agli arredi domestici, agli strumenti musicali, alle oreficerie, agli ex-voto in cera o dipinti, ai burattini, alle figure presepiali, alle maschere rituali, ai pali totemici. La tipologia di beni DEA materiali che si possono incontrare tanto nella ricerca sul campo quanto in un museo etnografico è vastissima.

Come per ogni altro settore dei beni culturali, la conservazione preventiva e la manutenzione programmata sono i valori primari cui far riferimento prima di giungere a un vero e proprio restauro.

L’ambito DEA richiede la costruzione di una precisa metodologia, che tenga conto della specifica natura di tali beni. L’inserimento del patrimonio culturale etnografico nel campo della tutela costringe ad ampliare la teoria e la prassi del restauro critico. In un bene DEA l’aspetto estetico non è prevalente; oltre alla materia e alla forma dell’oggetto, si deve tenere principalmente conto della sua funzione, del suo significato simbolico e delle tecniche corporali che vi vengono applicate nel suo contesto culturale. La preminenza della funzione sulla materia e sulla forma è un elemento essenziale della cultura materiale ed è testimoniata dall’uso reale degli oggetti rilevati sul campo; è alla luce di tale presupposto che si deve agire anche nel momento di un intervento conservativo.

Bisogna inoltre sottolineare il ruolo di fondo degli aspetti immateriali, che concorrono a definire l’interesse culturale di un bene DEA e che non possono venire né conservati né restaurati, ma documentati e valorizzati. Come preservare dunque i beni DEA immateriali nella loro complessa varietà di danze, musiche, canti, rituali, feste, tradizioni orali narrative? La salvaguardia del patrimonio culturale immateriale può avvenire in primo luogo attraverso la ricerca sul campo, la realizzazione di documentazioni audiovisive e la loro corretta archiviazione, catalogazione e, di nuovo, opportuna conservazione grazie a restauratori specializzati.

In secondo luogo, un modo per preservare un bene immateriale è quello di tutelare e valorizzare i beni materiali ad esso correlati (ad esempio le bandiere di Siena adoperate dagli sbandieratori durante il Palio). Anche in quest’ultimo ambito il restauratore è chiamato ad intervenire.

Un caso interessante da richiamare è quello della corsa dei Ceri che si tiene a Gubbio ogni 15 di maggio e che vede una forte partecipazione corale da parte della comunità eugubina. I Ceri rappresentano lo strumento tangibile di una più ampia cultura immateriale e come tali vanno tutelati.

Gli stessi Ceri di fine Ottocento che ancora oggi corrono durante la festa sono stati oggetto di un intervento locale di restauro. Si tratta di beni in uso, che spesso durante la corsa cadono e si danneggiano. Le macchine a spalla, sorrette dai Ceraioli, vengono usate e usurate nella festa; per quanto si voglia preservarne la materia e la forma, questa è la loro funzione. Il restauro, promosso nel 2011 dal Comune di Gubbio con la supervisione della Soprintendenza territoriale, ha dovuto tener conto di tutti questi aspetti nella ricerca di una soluzione di equilibrio.

L’intervento conservativo sul bene materiale “Cero” ha preservato indirettamente il bene immateriale “Festa dei Ceri”. Una volta alla settimana, inoltre, il cantiere di restauro è stato aperto al pubblico, con una grande partecipazione della comunità locale. Questa condivisione di saperi fra tecnici ed eugubini ha permesso a sua volta la salvaguardia, nel senso antropologico del termine, di un’intera tradizione in sé intangibile.

Il Cero, in quanto strumento d’uso della festa, è sicuramente un bene demoetnoantropologico, e come tale è anche un’opera che riveste senza dubbio un forte valore simbolico, artigianale, religioso, storico-artistico. Non si deve dunque cadere nell’errore di una rigida separazione settoriale degli oggetti della tutela, poiché segnare confini tra le differenti discipline e tipologie di beni non permette di certo una corretta lettura dell’opera nella sua complessità. In generale, è quindi auspicabile e necessario il confronto tra più figure interdisciplinari: il restauratore, l’antropologo culturale, lo storico dell’arte, gli artigiani e i portatori dei saperi locali. Consistono anche in questo le frontiere e le sfide della conservazione dei beni DEA.

 

Bibliografia

-          Anna Luce Sicurezza, I beni culturali demoetnoantropologici. Spunti di riflessione sulla conservazione e il restauro, in «Kermes», n. 100, 2017, pp. 159-160.

-          Daniel Fabre, Il duro desiderio di durare, in «Parole chiave», n. 49, 2013, pp. 31-51.

-          Lo stupore e la meraviglia: i ceri di Gubbio, cronaca di un restauro, a cura di Tiziana Biganti, Perugia 2011.

-          Marina Regni, Roberta Tucci, Le tambourin: instrument de musique populaire italien – utilisation, technologie, conservation, in «Coré. Conservation e restauration du patrimoine culturel», n. 4, 1998, pp. 33-36.

Con la collaborazione di Fabio Fichera, Valeria Trupiano e Leandro Ventura

Foto di Roberto Galasso, Sanio Panfili, Comune di Gubbio e Consorzio Aureo

Un ringraziamento particolare a Tiziana Biganti, Fabrizio Magnani, Matteo Morelli, Roberta Porfiri, Roberta Tucci, al Comune di Gubbio e alle ditte di restauro Ikuvium e Consorzio Aureo.

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#LACULTURANONSIFERMA: LA RUBRICA #LAFESTANONSIFERMA OGGI SUL PALIO DI SIENA

Etnografia del Palio di Siena al tempo del distanziamento sociale

Katia Ballacchino

Nell’Agosto del 2019 il MIBACT ha avviato un progetto volto alla salvaguardia del Palio di Siena strutturando un’azione collaborativa con le comunità e le istituzioni locali, proponendosi di contribuire alla cura del Palio, quale patrimonio culturale locale e nazionale allo stesso tempo, a partire da una comprensione del dispositivo festivo dalla prospettiva degli attori sociali coinvolti. Il progetto, promosso dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo, dall’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale e dal Servizio VI – tutela del patrimonio demoetnoantropologico e immateriale del Mibact, è condotto in collaborazione con un Comitato Scientifico composto dal Comune di Siena, il Magistrato delle Contrade, l’Università per Stranieri di Siena, l’Università degli Studi di Siena, l’Archivio di Stato di Siena, con la consulenza di esperti esterni.

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Siena, 2019 (ph. Katia Ballacchino)

In questo progetto ambizioso, come antropologa che da tempo si occupa in diverse regioni di sistemi festivi tradizionali e di comunità patrimoniali, sono stata incaricata di condurre la ricerca etnografica ai fini della individuazione degli elementi che costituiscono il patrimonio culturale demoetnoantropologico materiale e immateriale relativo al Palio e alle sue 17 realtà contradaiole. Con la consapevolezza che la densità culturale del Palio di Siena culmina, ma non si esaurisce affatto, nei giorni delle due feste annuali, il periodo di svolgimento della ricerca è stato individuato in un anno (novembre 2019 – ottobre 2020). Si tratta di un’indagine sul campo di tipo immersivo, volta a documentare e interpretare il vissuto e le rappresentazioni del Palio in ambito locale attraverso la produzione di interviste, l’osservazione e la partecipazione alle attività quotidiane delle contrade e nei luoghi e nei momenti socialmente e culturalmente più significativi per i numerosi protagonisti.

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Siena, 2019 - Riunione del Magistrato. I priori delle Contrade (ph. Katia Ballacchino) 

La ricerca, che mi ha vista impegnata con costanza sul territorio senese dallo scorso Novembre – intervistando, documentando e partecipando a rituali quotidiani sia intimi che pubblici di diverse contrade – si è però dovuta interrompere bruscamente i primi giorni di Marzo, per via dell’emergenza sanitaria che la pandemia di Covid-19 ha prodotto con effetti inediti e disarmanti sul nostro paese, come altrove. Ovunque la vita sociale si è arrestata, in un certo senso, e con essa prepotente è arrivata anche l’interruzione della ricerca etnografica che è radicalmente basata sull’incontro con i soggetti interlocutori. Quindi, innanzitutto, la casa che per vivere la quotidianità di contrada avevo preso in affitto nel cuore di Siena – abitazione che prima ancora di avere una via e un numero civico è sita nel territorio di una delle 17 Contrade che segnano profondamente la mappa del centro storico – da allora è rimasta vuota e chissà per quanto lo sarà.

E, con la casa, anche le riflessioni etnografiche si sarebbero svuotate – mi sono subito preoccupata di pensare fin dai primi giorni di isolamento – . E, invece, in tempi di pandemie globali l’etnografia svolta attraverso l’analisi dei media viene in soccorso agli antropologi e sollecita comunque il nostro osservare la contemporaneità, seppure a distanza. Infatti, sorprendentemente nell’ultimo mese molti contradaioli incontrati, le istituzioni con cui ho collaborato e i gruppi frequentati mi hanno spronata a riflettere a distanza sui significati quotidiani delle vite recluse nella città del Palio. Messaggi, mail, post e comunicazioni sui social network, richieste di interviste, etc. hanno occupato parte del mio tempo sospeso di quarantena. È stato come se Siena entrasse a casa mia, nel mio piccolo e intimo mondo che, per un’antropologa abituata a spostarsi da una città all’altra ogni due giorni, non era mai stato più fermo di così.

Ed è stato emozionante vedere catapultare quotidianamente fin dentro le mie mura domestiche romane – e senza averne fatto richiesta – fotografie e video prodotti dagli stessi protagonisti tra le strade deserte e spaesanti di una Siena abituata troppo spesso al turismo, alla movida rumorosa o alla vivace vita associativa rionale. Prima ancora che i media nazionali trasmettessero i canti delle ore 18 emessi dai vari balconi delle case di tutta Italia, quelle stesse strade senesi che stavo imparando a riconoscere – come si fa quando si entra in una fase della ricerca in cui il territorio diventa un po’ familiare – si sono immediatamente riempite dei canti di contrada intonati dalle finestre, senza volti. Non occorre, infatti, affacciarsi quando si canta, perché a Siena certi brani si conoscono a memoria, non servono spartiti o testi scritti, sono canti di uso quotidiano, di vita di contrada o di città come la marcia del Palio o il seguente, che in queste settimane è diventato virale arrivando persino ad essere trasmesso sul sito della BBC e della CNN: “Nella piazza del Campo / ci nasce la verbena / viva la nostra Siena / viva la nostra Siena”.

Ma oltre ai video e alle immagini ricevute da più parti, la mia improvvisata etnografia a distanza ha registrato diverse attività che testimoniano di una determinazione e di un sentimento di unità della città per eccellenza rappresentata come divisa in Contrade, manifestata attraverso le attività delle stesse, che non si fermano. Nei limiti profondi del distanziamento sociale, le Contrade infatti svolgono attività di solidarietà come donare un video laringoscopio per la terapia intensiva al policlinico delle Scotte, o impegnarsi per la consegna quotidiana di viveri ai più bisognosi, insistendo sulla dimensione di mutuo soccorso che le caratterizza. Alcune realtà hanno deciso di decurtare ai contradaioli la quota di sostegno mensile alla Contrada per venire incontro al periodo di crisi, anche economica, che li attende. Il “Comitato Amici del Palio” prendendo in prestito uno stornello senese che recita: Stasera mamma ‘un esco…perché so' in quarantena è triste tutta Siena…ma presto finirà, chiede ai bambini di realizzare degli elaborati “in casa” su Siena e le Contrade. Sui social impazza la condivisione quotidiana di documenti storici testuali, fotografici e video, sulle feste più celebri o la socializzazione di alcune “pillole” di storia senese e paliesca. Persino per il 25 Marzo, data dell’antico “Capodanno Senese” che rappresenta l’apertura ufficiale del periodo paliesco in città, le campane dei 17 Oratori di Contrada a mezzogiorno hanno suonato tutte insieme e il Magistrato delle Contrade ha proposto per l’occasione di “manifestare il proprio attaccamento a Siena esponendo, per l’intera giornata, alla finestra od al balcone di casa la bandiera della propria Contrada, pur abitando nel territorio di una Consorella oppure extra-moenia”. La città si è riempita per un giorno di bandiere anche se qualcuno ha preso la decisione di non esporre la propria in quella giornata ventosa per non sgualcire una bandiera a cui si tiene particolarmente, un oggetto di affezione, spesso cucito a mano settimanalmente dalle donne delle contrade.

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Siena, 2019 - S. Ansano. Inizio anno contradaiolo (ph. Katia Ballacchino)

Ma se è difficile per l’antropologa adattarsi seriamente a un’etnografia senza l’incontro in presenza con gli interlocutori, ancora più difficile è per Siena – come per tutte le città e i paesi caratterizzati da una festa così profondamente innestata nel tessuto sociale – reagire al timore collettivo del rischio di non vedere per la prima volta nella storia recente “la terra in piazza”, come titolava l’antropologo senese Alessandro Falassi un suo noto lavoro sul Palio. Proprio mentre scrivo questo post, infatti, a Siena è stata presa la decisione di annullare tutte le 17 feste titolari delle contrade che si sarebbero dovute svolgere nei prossimi mesi, e di rimandare a metà maggio la scelta definitiva se annullare i due Palii previsti per Luglio e Agosto, posticipare entrambi di qualche mese o proporre entro fine anno l’alternativa di un Palio straordinario. Ma al dolore con cui i Senesi trasmettono la decisione presa all’unanimità dalle contrade e dall’istituzione locale, si aggiunge anche il sentimento di timore per un Palio che senza assembramenti, senza folla, senza la partecipazione di tutti non avrebbe ragione d’essere. “Il Palio è una festa nazional-popolare, Piazza del Campo è il simbolo della democrazia”, spiega il sindaco in un comunicato, specificando che il Palio è una festa per tutti e che sarebbe impensabile, quindi, celebrarlo a porte chiuse.

A Siena, come ovunque, si palesa forte la preoccupazione che per molto tempo la vita potrebbe non tornare ad essere vissuta nel pieno della libertà dello stare vicini, del condividere i momenti di passione comunitaria, quali sono spesso in senso totalizzante le feste. Il Palio è soprattutto questo, lo stare insieme quotidianamente in Contrada e il condividere le emozioni che fanno rivivere il passato e che ipotecano il futuro della comunità attraverso la ritualizzazione annuale della corsa. Il Palio è anche la corsa. Ma la corsa senza i senesi, non avrebbe senso.

In questo momento difficile crollano anche a Siena – che con le sue Contrade racconta in modo emblematico tutta la potenza straordinaria della vita comunitaria italiana – molte delle certezze sul futuro. Certezze che anche l’antropologa si augura di vedere tornare presto impresse sui volti degli interlocutori senesi, perché con una Piazza del Campo vuota anche la ricerca, davvero, rischierebbe di avere come oggetto di indagine più un lutto individuale e comunitario che una festa. Ma anche questo, a ben pensare, sarebbe un dato che evidenzia ancora una volta il valore patrimoniale che il Palio assume per la città e per i senesi.

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#LACULTURANONSIFERMA. #IOGIOCOACASA. Il Gabinetto delle Stampe: le sagome da ritagliare. Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini e Anna Sicurezza

Nell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale, tra le varie tipologie dedicate al gioco e conservate presso il Gabinetto delle Stampe, sono ben rappresentate le sagome da ritagliare. Le figurine da scontornare iniziarono a diffondersi tra fine Ottocento e inizio Novecento, grazie all’impiego sempre più ampio della litografia, che permetteva di abbattere ulteriormente i costi di produzione delle stampe; l’acquisto di un gioco su carta era quindi alla portata economica di tutti.

  • Emblematica nelle nostre collezioni è ad esempio la “Bambola da vestire”, una vera e propria donna in miniatura da abbigliare, una volta ritagliata lungo i margini, secondo i canoni della moda di fine Ottocento. La stampa risente molto dell’influenza francese, poiché proviene dallo stabilimento litografico Lebrun-Boldetti, attivo a Milano tra il 1872 e il 1888. Va notato che la sagomina da ricoprire con l’abito non presenta parti nude, in base all’etica del tempo, ma è piuttosto già vestita di una ricca e abbondante lingerie.

  • Le sagome da ritagliare non si limitano alle più classiche bambole, ma spaziano all’interno di più ambiti. Interessante è ad esempio la figura del “Pagliaccio” che, insieme a quella del “Calabrese”, consiste in una marionetta composta di più parti mobili da montare. I colori vivaci della stampa sono quelli tipici dell’editore Eliseo Macchi, che rilevò lo stabilimento litografico di Lebrun e fu attivo a Milano dal 1902 al 1906. Si riconosce infatti il tipico marchio di fabbrica della stella a cinque punte sopra una mezzaluna.

  • A sua volta, l’attività di Eliseo Macchi cessò presto e venne sostituita nel 1925 dalla Marca Stella che prese il suo posto, modificando il marchio nella sola stella, ben riconoscibile ad esempio in due edifici da ritagliare: la “Villetta di campagna” e il “Mulino”. La prima con le arcate sull’atrio d’ingresso e i tipici alberi del paesaggio toscano, il secondo arricchito dai suoi buffi abitanti e dagli animali della fattoria.

  • All’editore Marca Stella rimandano anche alcune stampe legate al tema dei soldatini di carta. Sono presenti ad esempio gli intramontabili “Garibaldini”, così cari all’iconografia popolare, fino agli “Aeroplani” dell’esercito italiano. Dell’editore Nerbini e dello stabilimento litografico Alinari di Firenze sono invece diverse stampe legate al tema della guerra italo-turca (1911-1912). I soldati di entrambe le parti sono rappresentati in vari fogli, una testimonianza rara di un conflitto che la storia italiana ha in parte rimosso, perché ha comportato la conquista coloniale della Tripolitania e della Cirenaica (regioni storico-geografiche della Libia). Dell’editore De Castiglioni sono inoltre dei soldatini di carta che risalgono al primo quarto del XX secolo, molto simili ad altri presenti presso la nota raccolta di stampe “Achille Bertarelli” di Milano. La stessa incisione con la rappresentazione di una banda militare è infine conservata sia nella raccolta milanese che presso l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale: si tratta di una xilografia (incisione su matrice lignea) degli stampatori Remondini di Bassano e risale al 1840 circa, ultimo periodo della loro attività. Le forti analogie tra la raccolta milanese e quella dell’istituto romano dipendono dal fatto che in entrambi i casi fu Achille Bertarelli il principale artefice della scelta delle stampe che vi sono conservate.

  • Un ultimo nucleo di sagome su carta riguarda il presepe e gli elementi che lo compongono. In una serie di litografie in lingua tedesca, non solo si possono ritagliare i pastori, ma anche una fitta vegetazione arborea. Il foglio delle pecorelle, inoltre, risulta in parte ritagliato, perché è stato realmente utilizzato. Tornano infine col tema del presepe le litografie Marca Stella, caratterizzate nuovamente dalle loro colorazioni accese.

  • I giochi ci portano in un campo di competenze molto articolato. Quando parliamo del giocare ci vengono alla mente molte abilità: strategiche, competitive, di socializzazione, capacità di affrontare il rischio e l’azzardo.

  • Oggi vi proponiamo di riflettere su alcune particolari abilità esercitate inizialmente attraverso il ritagliare, ordinare e assemblare. Si tratta di operazioni che mettono in campo importanti competenze manuali, provate fin da bambini nella cornice del gioco. Innanzitutto ci misuriamo con l’uso di uno strumento della vita quotidiana adulta, che ha un grado di pericolo e di rischio: le forbici. Inoltre compiamo le operazioni di assemblare elementi, vestire la bambola, creare una maschera e/o comporre un edificio. Si tratta di azioni che imitano il prendersi cura di se stessi e degli altri, sublimano la realtà e ci proiettano nell’azione attraverso i nostri personaggi. Il giocare sta nella realizzazione del manufatto ma anche nell’azione immaginata con i manufatti.

  • Una volta formati gli “artefatti”, possiamo comporre immaginari di sagome che prendono vita e proiettano ogni giocatore in esercizi di socialità, ricreati ogni volta nei personali spazi di gioco. Inoltre se il giocatore ha la possibilità di sviluppare le azioni con compagni potremmo vedere campi negoziati nei quali le sagome divengono personaggi che collaborativamente e conflittualmente rafforzano e raffinano le qualità del singolo giocatore e i legami di gruppo.

  • Ancora oggi esistono le sagome da ritagliare o le bambole da vestire, spesso trasformate in altre versioni: figure magnetiche con accessori da sovrapporre, i giochi digitali e diffusi in rete. Vi invitiamo oggi a stampare il “Mulino” e la “Bambola” di fine Ottocento, per esercitare i gesti di ritagliare e di assemblare, e per giocare nei vostri personali immaginari.

  • Vi aspettiamo giovedì prossimo per riscoprire insieme il gioco dell’oca.

 

  • Bibliografia 

  • Callois R., I giochi e gli uomini, Milano 2004

  • Toschi P. (a cura di), Stampe popolari italiane dal XV al XX secolo, Milano 1968

  • Inglold T., Making Antropologia, archeologia, arte e architettura, Milano 2019

 

 

Hanno collaborato: Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini, Anna Sicurezza, Leandro Ventura - Montaggio: Marco Marcotulli.

Gabinetto delle Stampe - ICPi

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#LACULTURANONSIFERMA la rubrica Visioni d'Archivio: il vino negli archivi ICPI

#LACULTURANONSIFERMA: VISIONI D'ARCHIVIO oggi ci porta alla scoperta del #vino attraverso le stampe dell'archivio fondato da Lamberto Loria, le foto dell'archivio fotografico e le ultime produzioni audiovisive della Val D'Ossola. Queste riflessioni fanno parte di un lavoro di ricerca svolto da Fabio Fichera e Alessia Villanucci (Servizio VI DG-ABAP) e presentato al Symposion. L’arte del bere insieme” all'interno della "Giornata dell'archeologia 2019" presso Università la Sapienza di Roma.

 

Ospite della rubrica Ilaria Bonelli (Antropologa ANPIA) che ci parlerà delle attuali campagne di documentazioni tra committenza, territorio e note metodologiche.

 

Il video citato nella parte finale sul "prunent piede franco":

 

 

 

 

 

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#LACULTURANONSIFERMA. Narrazioni da "Italia dalle molte culture" - I Gurdwara dell’Agro Pontino. Rosa Anna Di Lella e Bianka Myftari

  • Appunti dalla ricerca su “Architetture informali, socialità e costruzione di un senso di comunità intorno alla rete dei gurdwara” di Rosa Anna Di Lella

  • La narrazione di oggi ci porta nel Lazio meridionale, in Provincia di Latina, un territorio che ha visto negli ultimi decenni una trasformazione del paesaggio antropico avvenuta grazie alla presenza crescente di una “comunità di diaspora” indiana, proveniente prevalentemente dal Punjabi, che dagli anni Ottanta e attraverso diverse fasi migratorie ha iniziato a vivere in questo territorio – il cosiddetto Agro Pontino – già denso di stratificazioni sociali e culturali legate a precedenti migrazioni interne.

  • I materiali che qui condividiamo, e che continueremo a condividere nelle prossime settimane, costituiscono una prima restituzione di una ricerca avviata nell’aprile 2019 e tutt’ora in corso: riflessioni, stralci da diari di campo, frammenti di reportage fotografici e documentazione audiovisiva che ci permettono di entrare in un contesto territoriale attraverso racconti e materiali grezzi, non definitivi, seguendo uno sguardo che si sta costruendo.

  • Il principale tema che la ricerca sta indagando è il ruolo che i diversi gurdwara (tempio, letteralmente “porta del guru” in punjabi) stanno assumendo - nel territorio in esame - nella costruzione di relazioni sociali, nella trasmissione di pratiche culturali e nella creazione di vincoli di solidarietà comunitaria, attraverso l’analisi dell’organizzazione di momenti festivi e di riunione collettiva, delle modalità di trasformazione di spazi riqualificati in luoghi di culto e dell’organizzazione di un sistema di cooperazione e partecipazione comunitaria che comprende diversi comuni nella provincia di Latina, da Aprilia a Formia. Partiamo però da qualche dato sulla “comunità sikh” in Italia.

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  •   Borgo Hermada e San Vito, 2019 (Ph. Roberto Galasso, © ICPi)

     1. Qualche numero sulla migrazione degli indiani sikh in Italia: il Lazio

  • Nell’International Migrant Stock del 2019, il report delle Nazioni Unite che stima i flussi delle migrazioni contemporanee, troviamo il seguente dato: la diaspora indiana nel 2019 ha raggiunto il numero di 17.5 milioni di persone, rendendo così l’India il paese maggiormente interessato dal fenomeno della migrazione internazionale. Secondo i dati del Ministry of External Affaire dell’India, sono più di 31 milioni gli Indiani che vivono all’esterno come NRI (Indiani non residenti) e PIO (Persone di origine indiana). Come scrive Vanessa Azzeruoli (2014) nell’analizzare le catene migratorie dall’India, l'immigrazione indiana si concentra in Lombardia, cui seguono Emilia Romagna, Veneto, e Lazio (dati ISTAT 2011).

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  • San Vito, 2019 (Ph. Roberto Galasso, © ICPi)

     È difficile stimare quante di queste persone provengano dal Punjab, ma è possibile fare delle stime, come possiamo leggere nel report di In Migrazione: “Sono più di 20.000 ogni anno i giovani della regione del Punjab indiano che migrano verso l’Europa, e l’Italia è una delle mete principali”. Attualmente, nel Lazio sono circa 12.000 gli indiani provenienti dal Punjab (stima CGIL).

  • Come scrive K. Lum (2012a), il Italia risiede la seconda più grande comunità di Indiani in Europa, che dal punto di vista occupazionale è impiegata in diversi settori: circa 10,000 indiani lavorano in Italina nell’agricoltura, soprattutto nell’Italia centrale, mentre nell’Italia del nord i settori prevalenti sono quelli nell’allevamento e nell’industria casearia (Lum 2012a, 2012b).

  • Non c’è modo qui di affrontare le complesse e diversificate motivazioni alla base del progetto migratorio che toccano questioni di natura economica e politica e che rimandano alla storia dell’India, alle ferite lasciate dal colonialismo e a quelle dei conflitti interni (Denti - Ferrari - Perocco 2005), né di tracciare nel dettaglio le fasi migratorie e le complesse reti transnazionali ad esse collegate (Azzeruoli 2014).

  • È importante però sottolineare, come suggerisce anche la ricerca condotta in questo anno, che si tratta di una migrazione principalmente maschile caratterizzata da ricongiungimenti familiari che avvengono una volta raggiunte forme di stabilizzazione del percorso migratorio, con trasformazioni in atto negli ultimi anni a seguito della crisi economica del 2008.

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 Pontinia, 2019 (Ph. Roberto Galasso, © ICPi)

 2. I Gurdwara 

  • “Per noi il tempio è semplicemente una casa, e senza il tempio non possiamo rispettare i principi fondamentali della nostra religione. Noi il tempio lo chiamiamo Gurudwara, “Guru” vuol dire Dio, e “dwara” casa, la casa del Dio. Ogni fine settimana tutti vengono al tempio per pregare, per condividere e per fare qualcosa per gli altri. (…) Abbiamo creato un’associazione culturale, religiosa e sportiva. La mia idea di fondo era quello di fare qualcosa per i ragazzi, soprattutto per i più piccoli che dimenticano la nostra cultura, i nostri costumi e insegnamenti sikh. Per la nostra religione è molto importante gli insegnamenti dei nostri Guru, per esempio l’insegnamento dell’uguaglianza tra uomini e donne. Per esempio nel langar la parità e fondamentale, per mangiare ci si siede per terra come segno di uguaglianza, tutti insieme senza nessun segno di distinzione. La tradizione del langar fu introdotta da Guru Nanak, il fondatore del sikhismo. L’idea di fondo era quello di abolire qualsiasi forma di divisione come quello delle caste, e di sostenere il principio di parità tra tutti i popoli del mondo, indipendentemente dalla religione, stato sociale, colore, sesso, età. (…) L’idea mia nasce propria da questa tradizione di uguaglianza e condivisione. Volevamo offrire ai ragazzi un luogo per giocare e passare il tempo. Ho notato che in Italia si devono spendere i soldi per poter accedere ai campi di sport. Invece in India i campi di calcio per esempio, sono aperti a tutti e senza pagamento. Lì non giocano undici contro undici, ma possono essere anche cinquanta contro cinquanta, sono partite di amicizia e possono giocare tutti. In questo modo si crea un clima di amicizia e un legame forte. La stessa cosa volevamo fare qua, anche perché molte famiglie non c’è l’ha fanno a pagare e a mandare i loro figli per divertirsi. Quindi abbiamo pensato di prendere in affitto un luogo dove i ragazzi sia indiani che italiani possono giocare insieme. Sono convinto che realizzeremo anche questo progetto. (…) Posso dire che da quando abbiamo aperto nel 2015 qui il tempo di Borgo Hermada, è diventato un tempio storico da dove sono partite tante altre cose, abbiamo affrontato molte problematiche come quello dello sfruttamento, senza il tempio tutto ciò non era possibile. Qui organizziamo anche l’esame della lingua che serve per prendere il permesso di soggiorno, oltre che classi per imparare la lingua italiana”.

  • È cosi che Gurmukh Sinhg ci racconta cosa è per lui il tempio, rimarcando diversi aspetti che anche le ricerche mettono in evidenza: il luogo di culto come punto centrale nella costruzione di un senso di comunità e di appartenenza, nel rinnovare legami con il paese di origine, nel sostenere e offrire accoglienza e servizi per le persone di recente migrazione (Gallo 2012). I templi sono espressione al contempo creano un nuovo modo di leggere il territorio, una nuova geografia dell’appartenenza (Vertovec, citato da: Gallo 2012).

 

  • Il tempio sono punti significativi sul territorio, esprimono leadership territoriali e gruppi di interesse articolati secondo un’organizzazione vasta che si attiva soprattutto nelle occasioni delle celebrazioni collettive, durante le quali tutte le comunità di riferimento dei diversi templi partecipano alla raccolta fondi e alla preparazione di cibi e bevande che vengono poi distribuiti ai partecipanti del singolo evento. Il calendario stesso delle celebrazioni che abbiamo seguito nel corso del 2019 è organizzato collegialmente dai referenti dei gurdwara del territorio, con una dislocazione nel tempo e nello spazio delle diversi appuntamenti che quindi coinvolgono a rotazione tutto il territorio. Allo stesso tempo sono luoghi del tempo libero, d’incontro e di socialità, ma anche di scambio di informazioni, luoghi da cui si organizzano rivendicazioni e manifestazioni contro il caporalato. Spazi del tempo di festa e del vivere quotidiano in cui dare forma alla trasmissione di saperi e modalità di percepire il mondo.

  • Da una semplice ricerca su Google Maps si può notare quanti siano i templi attualmente presenti sul territorio dell’Agro Pontino: Cisterna di Latina, San Vito, Terracina, Fondi, Pontinia, Sabaudia per la provincia di Latina e ancora Lavinio e Velletri nella provincia di Roma. Sono templi costruiti in zone rurali o nelle vicinanze dei centri abitati, accolti acquistando o affittando ex capannoni industriali o strutture agricole, riadattate e rimodellate secondo una organizzazione dello spazio che ha delle costanti: un ingresso con il parcheggio, uno spazio di confine tra esterno e interno dove lasciare le scarpe, lavarsi le mani e i piedi, un struttura principale per la preghiera dove sono presenti il Libro e l’alloggio del sacerdote, uno spazio cucina dove preparare i cibi e consumarli (langar). 

 

  • Dentro la ricerca: dal diario di campo. Visita ai templi sikh di Cisterna di Latina, Pontinia e Borgo Hermada di Bianka Myftari 

  • Sabato 3 agosto
  • In una calda giornata d’estate io e Rosa Anna siamo partite dalla stazione di Termini per arrivare a Latina dove ci aspettava Marianna. L’obbiettivo della ricerca e quello di osservare da vicino i templi Sikh, che tipo di architettura hanno, come funzionano e soprattutto il ruolo che svolge all’interno della comunità. Dopo che Marianna è venuta a prenderci, da lì a poco in un bar di Pontinia, ci ha raggiunto anche Gurmukh Singh, il nostro interlocutore privilegiato. Gurmukh è una figura di forte rilievo, rappresentante della comunità Sikh nel Lazio, uno dei fondatori del tempio di Borgo Hermada. 
    • Si occupa non solo della organizzazione del tempio e delle ricorrenze religiose, ma da anni si batte contro lo sfruttamento agricolo dei lavoratori sikh nell’Agro Pontino,tra Latina, Pontinia, Aprilia, Bella Farnia, Sabaudia, Borgo Hermada, San Felice al Circeo, Terracina e Fondi.
    • Ed è proprio lui insieme a Marco Omizzolo, ricercatore e responsabile scientifico della cooperativa In Migrazione, ad aver organizzato il primo sciopero della storia dei braccianti Sikh davanti alla prefettura di Latina nel aprile del 2016. Come racconta Gurmukh quel giorno ha segnato una piccola vittoria per i diritti dei braccianti, una situazione che conosce benissimo perché anche lui per 15 anni ha fatto il bracciante, prima di decidere di aprire un’attività commerciale nei pressi di Borgo Hermada. In qualsiasi avvenimento importante per la comunità, il tempio (chiamato gurdwara) svolge un ruolo fondamentale. Per i Sikh il tempio è il centro di tutto, per la comunità è vista come uno spazio multifunzionale, in cui pregare, stare insieme, cucinare, a volte diventa anche un luogo di svago soprattutto per i giovani.
    • Dopo il caffè al bar, tutti insieme ci dirigiamo verso un nuovo tempio situato nel centro abitato di Cisterna di Latina. La strada per arrivare è un po’ malconcia, Cisterna è un piccolo paese che sorge ai margini settentrionali dell’Agro Pontino, ed è un centro importante agricolo e industriale. Anche in questa piccola provincia di Latina la comunità Sikh nel corso dei anni è diventata più grande ed è nata la necessità di avere un tempio in cui riunirsi in preghiera.
    • Dopo aver attraversato le stradine che costeggiano i tanti campi coltivati, entriamo a Cisterna: è una zona residenziale fatta per lo più di villette, vediamo da lontano la bandiera arancione della che segnala il tempio sikh che sventola per testimoniare la propria presenza e offrire conforto e aiuto ad ogni persona che desidera recarsi.

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      • Cisterna di Latina, 2019 (Ph. Bianka Myftari, © ICPi)

      • Da subito si nota uno spazio grande, davanti a noi ci sono due edifici, uno grande che sarà il tempio, e l’altra più piccola che svolgerà la funzione di langar, la cucina comunitaria.  Ci dicono che recentemente sono stati acquistati grazie alle offerte della comunità Sikh, anche qua, come la maggioranza dei templi ha le tipiche dimensioni di un capannone, forse un ex-deposito auto o una officina.
      • All’interno l’ambiente è molto grande, ci sono alcuni volontari che a seconda delle proprie possibilità e abilità offrono il loro contributo per la costruzione del tempio. Alcuni dipingono, altri si occupano dell’elettricità. Il primo che ci da il benvenuto è il sacerdote del tempio. Insieme a Gurmukh ci fa strada e ci conduce verso le scale dove portano a delle piccole stanzette “adeguate” in base alle loro esigenze.

 

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      • Cisterna di Latina, 2019 (Ph. Bianka Myftari, © ICPi)

    • Una di quelle stanze svolge la funzione di un piccolo tempio provvisorio dove i credenti possono recarsi finché non sarà terminata la costruzione del tempio nuovo. L’ambiente e diviso in due parti da una tenda ed è coperto da tappeti. Nella prima stanza, sono seduti fedeli di diverse età, invece nella seconda stanza si trova il testo sacro, il Guru Granth Sahib Ji, collocato sopra un altare sormontato da un baldacchino. I fiori anche se finti sono elemento principale dell’arredamento intorno al testo sacro. Sul lato sinistro del baldacchino si intravede dietro la tenda un letto dedicato al “riposo” del libro. I fedeli si mettono in fila davanti al baldacchino per porgere i saluti e inchinandosi di fronte al Guru Granth Sahib. Durante l’inchino si può fare un’offerta in denaro nell’apposita cassetta, la quale andrà a finanziare il mantenimento del tempio. Dopo l’inchino i fedeli sempre in preghiera girano intorno al libro in maniera rispettosa, dopodiché si siedono per terra.
    • Appena ci siamo seduti un volontario si avvicina per offrirci il “Karah-Parshad”, budino di semolino preparato con burro, farina, zucchero e acqua. Il dolce rappresenta il corpo di Dio e per questo deve essere preso con tutte e due le mani come segno di rispetto.
    • Un fedele mi racconta che ogni fine settimana lui e la sua famiglia vengono al tempio non solo per pregare ma soprattutto per aiutare a preparare il langar, la cucina comunitaria. Il volontariato e il senso del dovere verso la comunità sono le colonne portanti della fede sikh.
    • Dopo aver parlato con alcune persone, quindi, lasciamo Cisterna e ci dirigiamo verso un altro Gurdwara che conosciamo bene, quello di Pontinia. L’esterno del tempio sembra un cortile scolastico, ci sono molti ragazzi e bambini che giocano. In quel momento si stavano svolgendo due funzioni religiose, la prima all’interno del tempio composta solo dagli uomini, e la seconda all’esterno del tempio composta maggiormente da donne. Tutti avevano in mano un libricino che conteneva la parola di Dio scritto.

     

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      • Pontinia, 2019 (Ph. Bianka Myftari, © ICPi)

    • Abbiamo poi incontrato un gruppo di giovani, tra cui Raman, una giovane ragazza, di seconda generazione, che conosce bene la tradizione sikh e vuole esserne depositaria.
    • Raman è estroversa, ha voglia di raccontarsi e di condividere con noi la sua esperienza all’interno della comunità. Nonostante la sua giovane età ha le idee chiare, nella sua famiglia è stata la prima ad essere battezzata, afferma che e stata una sua libera scelta, ed il fatto che è stata la prima nella sua famiglia a fare questo passo la rende orgogliosa.
    • Essere battezzati sikh  significa non solo portare avanti la propria tradizione ma allo stesso tempo comporta una serie di obblighi e rinunce. E considerata il segno totale della dedizione alla fede, che si accompagna con i segni fisici della fede e 5 K: portare il pugnale (Kirpan), non tagliare mai i capelli, portati sempre raccolti sotto il turbante, avere sempre con sé il pettine (Kangha), le brache lunghe (Kacha), e l’ultimo il quinto segno portare un braccialetto di ferro chiamato Kara, rappresenta il ricordo costante di Dio.
    • Raman racconta con entusiasmo che fa parte dei  Gatka, una disciplina marziale in cui un gruppo di fedeli, eseguono dimostrazioni con diverse armi come bastoni, cerchi, catene e spade, e commemorano in questo modo le figure dei guerrieri Sikh che combatterono contro il nemico. Questa disciplina venne insegnata nelle scuole Gatka, e spesso anche nei templi sikh, dove tutti possono partecipare, anche le donne, pur se si tratta di una disciplina precedentemente riservata solo ai uomini. Raman afferma che fare parte di questo gruppo non significa solo imparare a combattere ma ad essere uguali agli uomini, per far capire a tutte le donne che possono fare qualsiasi scelta di vita.

     

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      • Pontinia, 2019 (Ph. Bianka Myftari, © ICPi)

    • Dopo una breve intervista, Raman ci presenta sua madre, conosce solo la sua lingua punjabi. Ha un viso stanco,  segnato dalle fatiche del tempo, i suoi occhi scuri e profondi rispecchiano la sua anima gentile, ci sorride, sembra quasi imbarazzata di non saper parlare in italiano, anche se l’espressione del suo viso ci fa capire più delle parole. È arrivata in Italia tanti anni fa. Ci racconta di aver seguito il suo marito, era ancora giovane, ha fatto sempre la casalinga e purtroppo non si e mai inserita nel tessuto sociale italiano.  Ci invitano a mangiare nel langar.  Appena entriamo un volontario ci invita a prendere il piatto e il bicchiere per poi prendere posto con gli altri. L’idea di langar mi sembra davvero rivoluzionaria, tutti possono mangiare, senza distinzione di credo e classe sociale, ed ecco perché per la consumazione dei pasti ci si siede per terra come segno di uguaglianza.
    • Finito di mangiare portiamo i piatti nel lavandino dove un gruppo di donne aiutano a lavare i piatti  e sistemare la cucina, anche gli uomini non sono da meno, ci dicono che tutti devono contribuire ognuno con la propria capacità per il bene comune, e questa e la cosa più importante e più significativa della comunità sikh.

     

    • 4 agosto 2019
    • La nostra destinazione della giornata è il Gurdwara di Borgo Hermada. Per i fedeli la domenica è dedicata al tempio anche perché durante la settimana la maggior parte di loro  lavorano per i campi, spesso finendo sera tardi. Oggi vengono tutti al tempio dove insieme alle famiglie si riuniscono  per pregare e per stare insieme. Secondo la religione, almeno un giorno a settimana dovrebbe essere dedicata al Gurdwara, al volontariato e al servizio verso gli altri.
    • Borgo Hermada, frazione del comune di Terracina, è uno dei borghi sorti nell’Agro Pontino durante il periodo fascista. Il centro abitato si estende su una vasta area rurale. Il tempio sorge poco distante dal centro abitato, circondato da un ampio campo agricolo. L’edifico che ospita attualmente il tempio di Borgo Hermada era un ex- capannone agricolo, usato per svariate necessità, come del resto la maggioranza dei templi sikh in Italia si sono adottate a fabbricati già esistenti e con tutt’altre funzioni.
    • In questa calda mattinata stiamo per raggiungere il tempio, da lontano tra ampi campi di grano e terre coltivate si vede la bandiera arancione con il simbolo della fede sikh. Una volta arrivati togliamo le scarpe e li mettiamo sui scaffali sotto il gazebo che si trova sulla parte sinistra del entrata principale.

     

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      • Borgo Hermada, 2019 (Ph. Bianka Myftari, © ICPi)

    • Lo spazio è grande, si compone dal tempio che si trova sulla parte destra dell’entrata principale, dal langar, lo spazio che spesso si utilizza come luogo di svago dove giocano i bambini; in un angolo a sinistra di notano dei attrezzi di allenamento utilizzata dai ragazzi. 
    • Prima di entrare nel Gurdwara, il visitatore o un fedele deve lavarsi mani e piedi nel apposito vasca e lavandino che si trovano davanti all’entrata, per poi coprirsi il capo come segno di rispetto verso il Testo Sacro.  Per accogliere al meglio i fedeli prima delle preghiere, un gruppo di ragazzi stanno preparando una bevanda rinfrescante preparato secondo la tradizione del Punjab.
    • Anche se è ancora presto i fedeli cominciano ad arrivare, anche se è un luogo di culto al tempio si e creata una atmosfera famigliare, molti visitatori sono famiglie che insieme ai loro figli vengono a pregare.
    • È un luogo di incontro non solo sul aspetto religioso ma soprattutto su quello sociale.
    • Mi sposto in cucina per fare delle fotografie, i volontari chiamati sono alle riprese per la preparazione dei cibi tradizionali. Lo fanno per i principi della condivisione e fratellanza che sono molto sentiti all’interno della comunità sikh.
    • In cucina ci si aiuta a vicenda, non c’è una distinzione tra generi anche se le donne svolgono un ruolo importante nella preparazione dei pasti. Ho incontrato Jonny che stava preparando una ricetta tradizionale del suo villaggio d’origine, gli ingredienti principali sono carote, piselli, cipolla, alloro e varie spezie. Spiega che è una ricetta semplice, ma che li ricorda la sua infanzia, da piccolo aiutava sua madre nella preparazione dei pasti, lei è stata la sua più grande ispirazione.
    • In un altro tavolo un gruppo di donne sta preparando pane tradizionale indiano chiamato chapati, è parte fondamentale di ogni pasto perché accompagna qualsiasi ricetta.
    • Dall’altro angolo della cucina la maggior parte degli uomini lavano i piatti e le pentole, invece i bambini aiutano a servire il cibo ai fedeli. Tutto e ben organizzato, ognuno ha un compito preciso nella grande cucina comunitaria.
    • Il Gurudwara comincia a riempirsi di fedeli, in ordine tolgono le scarpe nel apposito posto, lavano mani e piedi per poi entrare nel tempio e porgere il saluto al Testo Sacro, il Guru Granth Sahib.
    • L’interno del tempio gremita di fedeli, sembra di essersi tuffati all’interno di un grande mosaico per la varietà dei abiti tradizionali e turbanti colorati. Sulla parte sinistra stanno le donne, su quella destra gli uomini, a metà della sala alcuni fedeli aspettano pazientemente il loro turno per il saluto al libro. È un giorno speciale, alcuni sacerdoti Jatha venuti dal India per cantare insieme ai fedeli. Sembra che l’uso del canto nelle celebrazioni religioso sia stato introdotto dal decimo Guru, il Guru Gobind Singh Ji. C’era bisogno di un particolare stile di canto che trasmettesse energia ai combattenti di guerra. Spesso i testi elogiano l’audacia e il coraggio dei guerrieri sikh.  Oggi i Jatha cantano inni sacri e raccontano la storia dei sikh alla congregazione.

     

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        • Borgo Hermada, 2019 (Ph. Bianka Myftari, © ICPi)

    • Una volta finito la “messa” come lo chiamano loro, ci spostiamo verso langar per mangiare, prendiamo il piatto e il bicchiere di metallo per prendere posto con gli altri. Mangiamo seduti con le gambe incrociate. I più giovani offrono il cibo che viene servito caldo. Secondo la tradizione si mangia con le mani, però se serve vengono servite le posate. Il menu più servito è riso, salsa con verdure e il rinunciabile pane indiano. 
    • Tutti sono molto gentili e ci sorridono. Non è la prima volta che la nostra presenza risulti molto gradita all’interno del tempio, anche se al inizio della ricerca su i loro volti traspariva un  po’ di stupore e curiosità.   

         

     

  • * * * *     * * * *     * * * *      * * * *
  • Il gruppo della ricerca in corso nel territorio della provincia di Latina è costituito da Rosa Anna Di Lella (funzionario demoetnoantropologo dell’ICPi, coordinamento), Roberto Galasso (Fotografo del Servizio VI - DG Abap), Marianna Fratteralli (operatrice culturale, esperta in processi di mediazione), Bianka Myftari (antropologa culturale, impegnata nel 2019 in un tirocinio formativo all’ICPi nell’ambito del piano didattico della Scuola di Specializzazione in Benidemoetnoantropologici de “La Sapienza” Università di Roma)

     

    Fonti e approfondimenti

    Azzeruoli, V. (2014) Legami tra pianure. Gli intermediari nella migrazione panjabi indiana in Italia. Tesi di dottorato di ricerca in Scienze Sociali, Interazioni, Comunicazione, Costruzioni Culturali (ciclo XXVI), Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata https://www.academia.edu/9688549/Tesi_di_dottorato_LEGAMI_TRA_PIANURE_Gli_intermediari_nella_migrazione_panjabi_indiana_in_Italia)

    Denti D., Ferrari M., Perocco F., 2005, I sikh, storia e immigrazione, Milano, Franco Angeli

    Gallo, E. (2012) Creating Gurdwaras, Narrating Histories: Perspectives on the Sikh Diaspora in Italy, in SAMAJ -South Asia Multidisciplinary Academic Journal, n. 6 (https://doi.org/10.4000/samaj.3431)

    International Migrant Sctock 2019, United Nations - Department of Economic and Social Affairs (https://www.un.org/en/development/desa/population/migration/data/estimates2/estimates19.asp)

    Lum, K. (2012a) Indian Diversities in Italy: Italian case study, in Technical Report, Migration Policy Centre, CARIM-India Research Report, 2012/02 (https://cadmus.eui.eu/handle/1814/20821)

    Lum, K. (2012b) The Quiet Indian Revolution in Italy´s Dairy Industry, in Technical Report, Migration Policy Centre, CARIM-India Research Report, 2012/08 (https://cadmus.eui.eu/handle/1814/23486)

    Omizzolo, M. (2019) Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, Feltrinelli

    Punjab. Fotografia delle quotidiane difficoltà di una comunità migranteinvisibile. Anteprima dell’indagine sulle condizioni della comunità Sikh più grande d’Italia, in Provincia di Latina, a cura di In Migrazione, Società Cooperativa Sociale (https://www.inmigrazione.it/UserFiles/File/Documents/34_Punjab.pdf)

     


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