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Articoli filtrati per data: Aprile 2020

#LACULTURANONSIFERMA #LAFESTANONSIFERMA. Rievocazioni Storiche: i progetti in corso.

Testo di Rosa Anna Di Lella, Valeria Trupiano, Leandro Ventura, Alessia Villanucci 
Foto di Roberto Galasso, Anna Maria Pasquali

Le rievocazioni storiche in Italia costituiscono un panorama di eventi e manifestazioni vario e vitale, che sta suscitando un crescente interesse da parte di studiosi, accademici ed enti a livello locale e nazionale, nonché del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (MiBACT). Il Servizio VI della Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio (DG ABAP) e l’Istituto centrale per il patrimonio immateriale (ICPI), dal 2017 ad oggi, hanno promosso diverse iniziative di studio, valorizzazione, tutela e salvaguardia degli aspetti materiali e immateriali ritenuti rilevanti dalla prospettiva demoetnoantropologica.

Rievocazioni storiche tra cultura popolare, consumo di massa e processi di folklorizzazione.
Come nota l’antropologo culturale Fabio Dei ad introduzione del volume “Rievocare il passato: memoria culturale e identità territoriali”, con il concetto di rievocazione storica possiamo intendere “quella sempre più ampia gamma di eventi e pratiche pubbliche ac¬comunate dalla volontà di rivivere o mettere in scena momenti del passato storico, attraverso performances di massa caratterizzate dall’uso di costumi e di ricostruzioni di ambienti e manufatti ‘d’epoca’” (F. Dei – C. Di Pasquale 2017, p. 7). Il fenomeno ha avuto una grande proliferazione negli ultimi decenni diffondendosi in maniera capillare sui territori, specialmente nel centro-nord Italia, ad opera di gruppi, associazioni, enti locali, o comuni di piccole, medie o grandi dimensioni, mettendo in scena le più varie tipologie di manifestazione: momenti festivi legati a una località specifica, con componenti agonistiche, scenografie e costumi storici; sfilate, cortei, esibizioni, giochi, spettacoli di ambientazione storica e performance musicali; ricostruzioni di battaglie di ogni epoca; ricostruzioni d’ambiente e di vita quotidiana del passato; attività di living history o di “archeologia applicata”; eventi religiosi in costume, presepi viventi; giochi di ruolo e forme di cosplay ispirate a generi fantasy, ecc.
Per lungo tempo ignorate dagli studiosi di antropologia culturale in Italia in quanto ritenute delle forme di spettacolo inventate a scopo turistico ed economico, prive di quei parametri di “autenticità” e “tradizione” per lungo tempo ricondotti ai beni demoetnoantropologici, le rievocazioni e ricostruzioni storiche sono divenute solo in tempi recentissimi oggetto di riflessione della disciplina. In questo panorama, un posto di primo piano è occupato senza dubbio dal pioneristico progetto interdisciplinare dell’Università di Pisa, Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere che, a partire da un censimento delle realtà presenti sul territorio toscano, costituisce un primo tentativo di riflessione analitica e sistematica sul fenomeno:

pagina-web

http://rievocareilpassato.cfs.unipi.it/

Da una prospettiva scientifica aggiornata, i risultati del progetto mettono in luce gli elementi di interesse di queste pratiche sociali quali espressioni contemporanee della “cultura popolare”, caratterizzate, tra le altre cose, anche dal consumo di massa e dai processi di “folklorizzazione” a scopo turistico ed economico.
L’osservazione etnografica mostra come tale fenomeno divenga, in molti contesti, veicolo di produzione di universi simbolici e morali complessi e stratificati, nonché di processi di costruzione di località e di appartenenza. Rievocando un momento storico del proprio passato – reale o immaginato – individui, gruppi e comunità si riappropriano degli spazi cittadini, costruiscono relazioni e legami sociali, inventano identità fittizie con cui “giocano” - investendo in modo significativo tempo, energie e risorse individuali e comunitarie - durante tutto il corso dell’anno, in occasioni pubbliche, così come intime e private. Per la demoetnoantropologia, l’interesse delle rievocazioni non risiede nella loro presunta correttezza filologica quanto nel legame tra le manifestazioni, i territori e la storia locale e nei modi in cui individui e comunità di “rievocatori” si appropriano degli eventi del passato risignificandoli nel presente. Le rievocazioni storiche risultano dunque significative più per quello che ci dicono del presente delle comunità e dei gruppi che le mettono in scena, che del loro passato.

 

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Sede del Calcio Storico Fiorentino. Palagio di Parte Guelfa. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

I progetti

1. Salvaguardia del patrimonio demoetnoantropologico del Corteo Storico della Repubblica Fiorentina e del Calcio Storico

Uno dei principali progetti avviati nel 2019 dal Servizio VI e dall’ICPI, su iniziativa della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e per le province di Pistoia e Prato, è finalizzato all’ideazione e sperimentazione di prassi di salvaguardia del patrimonio materiale e immateriale del Corteo Storico della Repubblica Fiorentina e del Calcio Storico. Il progetto vede la collaborazione del Comune di Firenze, del Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo dell’Università di Firenze, del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, del Corteo Storico della Repubblica Fiorentina. Si tratta di soggetti che, da diverse prospettive, ruoli e competenze, lavorano in costante dialogo al fine di restituire una visione complessa del fenomeno culturale e dei suoi elementi d’interesse – come sarà approfondito nello specifico contributo di prossima pubblicazione nella nostra rubrica “Visioni dai territori”.

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 Sede del Calcio Storico Fiorentino. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

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Corteo Storico della Repubblica Fiorentina. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

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Corteo Storico della Repubblica Fiorentina. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

Il progetto ha previsto la catalogazione e documentazione fotografica dei modelli dei costumi del Corteo e del Calcio storico fiorentino, ad opera di due storiche dell’arte, e lo svolgimento di un’indagine etnografica in profondità finalizzata all’individuazione degli aspetti materiali e immateriali di interesse etnoantropologico dell’insieme costituito dal Corteo e dal Calcio storico fiorentino, condotta da un antropologo culturale.

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 Calcio Storico Fiorentino. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

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Calcio Storico Fiorentino. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

Il processo partecipato e sperimentale si sta rivelando prezioso nella strutturazione di adeguate prassi di salvaguardia che hanno ad oggetto una tipologia di beni materiali e immateriali vitali, in uso e in mutamento, e che rappresentano un ambito complesso e nuovo per l’azione del Ministero. Centrale e imprescindibile, in questo come negli altri progetti in corso, è infatti il coinvolgimento dei protagonisti delle manifestazioni, nella convinzione dell’importanza di ampliare la partecipazione della società civile nelle azioni amministrative di tutela e valorizzazione dei beni e delle attività culturali.

2. Mappatura nazionale delle rievocazioni storiche

In ragione della vivacità del panorama nazionale delle rievocazioni storiche e dei molteplici aspetti rilevanti dal punto di vista demoetnoantropologico, il Servizio VI – DG ABAP e l’ICPI hanno ideato un ampio progetto di ricerca, in collaborazione con SIMBDEA, la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici. L’obiettivo – appena lo consentirà l’emergenza sanitaria in corso – è realizzare una prima ricognizione volta a individuare e documentare la varietà di tali espressioni culturali contemporanee. A questo scopo, saranno svolte indagini sul campo specifiche e approfondite da parte di ricercatori antropologi che, a partire da una mappatura generale, documenteranno nel corso di un anno intero casi di particolare interesse anche mediante l’ausilio di strumenti di catalogazione e inventariazione partecipata. Oltre a soggetti istituzionali quali le Proloco e le Soprintendenze, coerentemente al prevalente interesse per il vissuto e le percezioni locali dei fenomeni culturali della prospettiva dalla quale operiamo, l’indagine sul terreno coinvolgerà le comunità locali con attenzione agli attori sociali che non rivestono un ruolo istituzionale, ma che saranno intercettati come significativi per una adeguata comprensione della complessità del processo culturale.
Questo lavoro di mappatura intende rappresentare un passo importante dal punto di vista scientifico, nella direzione di una più ampia e dettagliata comprensione del fenomeno emergente rappresentato dalle rievocazioni storiche; dal punto di vista della salvaguardia del patrimonio demoetnoantropologico, andando a documentare gli elementi di interesse materiali e immateriali; dal punto di vista della valorizzazione, attraverso la diffusione dei risultati e dei materiali prodotti dell’indagine e il contributo alla costruzione del dibattito pubblico sul tema.

3. Attività espositive

Nel più ampio panorama delle attività, nel corso del 2019, l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale ha promosso due mostre dedicate al tema delle rievocazioni storiche – “Del maneggiar l’insegna Il maneggio della bandiera nei secoli” e “Le Rievocazioni Storiche al Museo” – realizzate in sinergia con il Museo delle Civiltà e con la collaborazione della Federazione Italiana Giochi Storici.

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Inaugurazione mostra "Le Rievocazioni Storiche al Museo". Museo delle Civiltà - museo delle arti e tradizioni popolari "L. Loria". Roma, 2019 (Ph. Anna Maria Pasquali)

In particolare, la mostra “Le Rievocazioni Storiche al Museo” (21 settembre 2019 – 6 gennaio 2020) ha presentato al pubblico il ricco e multiforme panorama delle rievocazioni storiche italiane attraverso una selezione di oltre settanta costumi e decine di accessori e oggetti contemporanei, ispirati a diverse epoche del passato riferiti a trenta diverse manifestazioni ”rievocative” che si svolgono in altrettanti Comuni disseminati in gran parte del territorio nazionale. L’esposizione è realizzata con la diretta partecipazione di queste comunità locali, che hanno collaborato attivamente selezionando e mettendo a disposizione i materiali esposti e fornendo le presentazioni delle diverse manifestazioni: una prospettiva “dall’interno”, una lettura delle rievocazioni storiche come elementi di autorappresentazione delle comunità locali.
Una delle prerogative della mostra temporanea è stata, inoltre, la realizzazione di percorsi di visita accessibili, pensati per un pubblico di persone con disabilità, attività progettate dalla CoopAcai Phoenix, l’ENS-Ente Nazionale Sordi, il Museo Tattile Statale Omero di Ancona, la Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi, L’Anffas-Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/ o Relazionale tutte organizzazioni di livello nazionale senza finalità di lucro ed operanti nei vari settori nella progettazione e realizzazione di processi per l’accessibilità degli spazi pubblici e per garantire accesso alle persone con disabilità.

 

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#LACULTURANONSIFERMA. #VISIONIDAITERRITORI. Il progetto Co-Heritage e la piattaforma partecipativa

Per la rubrica #VISIONIDAITERRITORI vi presentiamo le attività e la piattaforma partecipativa che l'Ecomuseo Casilino ad duas lauros ha recentemente avviato per attivare un ampio coinvolgimento finalizzato alla costruzione del catalogo dei patrimoni locali e dei percorsi di fruizione. 

ecomuseo piattaforma

 

"Come Ecomuseo Casilino", scrive Stefania Ficacci, "avevamo già in cantiere la realizzazione di una sezione all’interno del nostro portale che consentisse a chiunque di inserire e condividere una risorsa culturale ritenuta elemento di un patrimonio comune. Gli eventi di queste ultime settimane hanno solo accelerato il processo, portando il nostro progetto Co.Heritage ad una fase 2.0, che ha l’obiettivo di utilizzare il web per consentire a tutti di partecipare all’individuazione dei patrimoni locali e alla creazione di percorsi di fruizione dei paesaggi archeologici, storici, antropologici, urbanistici e artistici. Sono 4 gli strumenti che consentono ali utenti di diventari soggetti e attori del progetto Co.Heritage tramite il web:

1. La piattaforma di partecipazione e narrazione – aperta a tutti i singoli utenti con l’obiettivo di catalogare e condividere risorse e realizzare un percorso tematico;

2. Lo sportello della memoria – una “cassetta della posta” alla quale spedire tramite form documenti fotografici e audiovisivi;

3. Il gruppo facebook di Co.Heritage – piazza virtuale in cui condividere storie e ricordi;

4: La piattaforma di catalogazione collettiva – struttura ambiziosa e in corso di sviluppo, che ha l’obiettivo di consentire la catalogazione e la condivisione delle risorse mediante un sistema specifico e secondo standard internazionali e aperto a studiosi, ricercatori e organizzazioni".

Link alla piattaforma:

http://www.ecomuseocasilino.it/partecipa-anche-tu-alla-costruzione-dellecomuseo-casilino/?fbclid=IwAR1J8ReNzepst5RrNXaSIYerQQiuM-2viD5YKaNDiIuV200YF5-6lMzE4KM

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#LACULTURANONSIFERMA LA RUBRICA DI ETNOMUSICOLOGIA: IL TRALLALERO

 

 

 

Testo di presentazione: Claudio Rizzoni

Presentazione video: Paolo Besagno, canterino e studioso di trallalero, direttore artistico dei Giovani Canterini di Sant’Olcese.

Video su YouTube: performances dei Giovani Canterini di Sant’Olcese.

  1. Baccicin, vatten’ a ca’,

trallalero di congedo

 

 

  1. 2)Mamma dimmi perché

https://youtu.be/YxcA5sLcmo4

 

Trallalero, appartiene al repertorio più antico e consolidato.

  1. 3)O trallalero canson de na vitta

https://youtu.be/RM24vPqkOBk

 

La "canzone della squadra" di Sant'olcese.

La tradizione vuole che spesso le squadre di canto abbiano la loro canzone-manifesto.

É il caso di questo brano, composto da Paolo Besagno nel 1996.

  1. 4)Trallalero de Sangianbattista

https://youtu.be/sD7WfhPmgPU

 

Trallalero-canzone, scritto da Paolo Besagno.

  1. .

Le pratiche musicali di tradizione orale sono spesso state associate, nell’immaginario comune, ai contesti rurali (musiche dei contadini, musiche dei pastori) e a volte condannate, dallo sguardo estetizzante ed esotizzante che caratterizza la fruizione borghese, a un appiattimento in una dimensione di alterità astorica che ne appanna le dinamiche e i legami con i mutamenti che caratterizzano la società nel suo complesso.

È invece interessante come alcune di queste abbiano preso forma in contesti e in periodi – tutto sommato abbastanza recenti – caratterizzati da fenomeni che si tenderebbe a non associare alla musica “tradizionale”. Il trallalero genovese, il cui periodo di maggior sviluppo va dalla seconda metà del XIX secolo alla prima metà del XX, ha queste caratteristiche: è figlio dell’inurbamento della manodopera rurale proveniente dai borghi montani delle “Quattro province”; della riorganizzazione della vita collettiva in un panorama urbano – quello di Genova – in cui le forme del lavoro si adeguano al fortissimo sviluppo delle infrastrutture produttive e commerciali (le industrie, il Porto); dell’incontro dei sistemi musicali di matrice folklorica con le forme colte e semi-colte della canzone e dell’opera.

Tuttora praticato a Genova e in altre località della Liguria (dove si è diffuso dal capoluogo), il trallalero è un genere di canto polivocale privo di accompagnamento strumentale, che prende il proprio nome dal ritornello nonsense che costituisce l’apice virtuosistico e improvvisativo nelle performances. Basato su progressioni accordali di impianto marcatamente tonale, il trallalero prevede l’interazione di cinque parti: cuntrétu, primmu, chitarra, cuntrabassu e bassu. Le prime quattro sono eseguite da singoli cantori, mentre l’ultima viene eseguita all’unisono da un numero variabile di elementi. La presenza del cuntrétu e della chitarra costituisce un elemento fortemente distintivo nell’ambito delle pratiche polivocali di tradizione orale: La parte del cuntrétu viene esguita da un uomo che canta in falsetto muovendosi in un ambito di altezze paragonabile a quello di un contralto (o meglio, di un controtenore). La chitarra è invece una parte caratterizzata da una forte libertà di fraseggio – articolato in arpeggi – su sillabe onomatopeiche a imitazione, appunto, di una chitarra di accompagnamento.

Del proprio retroterra rurale, le cui probabili radici vanno rintracciate ameno in parte nei canti alla bujasca dell’appennino piacentino, la pratica del trallalero conserva alcuni caratteri fondamentali. Innanzitutto si mantiene il carattere conviviale e ludico delle performances, che dalle osterie dei paesi si spostano nei luoghi di aggregazione cittadini (osterie, bar, latterie, circoli dopolavoristici). In città la pratica del canto mantiene anche la netta connotazione di genere che la caratterizza come un modo di passare il tempo insieme fra uomini,[1] legato a routine quotidiane prettamente maschili che si radicano nell’appartenenza alla nascente classe lavoratrice (si lavora in fabbrica, al porto o in ufficio, e poi si va al bar a cantare e a bere con gli amici). La composizione delle squadre (così sono denominati gli ensemble) riflette però le articolate geografie sociali della città articolandosi secondo appartenenze a comunità di quartiere fortemente interconnesse: le squadre formano una rete di canterini (cantori) caratterizzata da dense interazioni che, dai primi anni del XX secolo, si sostanziano anche in vere e proprie gare di canto che hanno luogo nelle osterie o in altri luoghi di ritrovo. Si tratta di reti aperte, la cui porosità e dinamicità trova riscontro nelle feconde interazioni con professionisti della musica di ambito borghese (maestri di coro, compositori, cantanti). È questo un dato particolarmente importante da rimarcare, perché la forte permeabilità che caratterizza le relazioni fra il trallalero e le pratiche di ambito colto e semi-colto (opera, canzone) determina un rilevante mutamento nelle estetiche, negli stili e in parte nei modi di produzione e circolazione della musica. Ciò avviene in modi diversi: attraverso l’ascolto, prima con il grammofono e poi con la radio, delle performances dei grandi cantanti d’opera; attraverso la frequentazione diretta (alcune squadre, nei primi decenni del Novecento, sono dirette da maestri di coro; tra i canterini, inoltre, vi sono appassionati che praticano il canto operistico a livello amatoriale). Infine, fra gli anni Venti e gli anni Trenta, le squadre di trallalero diventano uno dei terreni di sperimentazione in cui innestare un nuovo genere di canzone regionale popolaresca: anche con il favore del Regime Fascista, che tramite l’Opera Nazionale Dopolavoro favorisce l’inserimento di alcune squadre nei circuiti performativi frequentati dalle borghesie locali, diversi autori iniziano a comporre canzoni appositamente per le squadre. È in questo contesto che va letta anche la precocissima mediatizzazione delle performances delle squadre di canto: nel periodo compreso fra il 1928 e il 1954 vengono incisi centinaia di brani (su 78 giri e poi su 45 giri). I dischi, prodotti anche dalle più importanti case discografiche dell’epoca e destinati almeno in parte ai mercati esteri (un largo bacino di potenziali acquirenti era costituito dalle comunità diasporiche italiane presenti soprattutto nei paesi dell’America meridionale), contenevano soprattutto canzoni riarrangiate per l’esecuzione polivocale o specificamente composte per i canterini.

Questo tipo di dinamiche lascia tracce evidenti nell’appropriazione di terminologie e nomenclature di matrice colta (cuntrétu, chitarra, cuntrubassu, bassu) – pur assimilate con slittamenti semantici –, nonché nei repertori cantati oggi dalle squadre che possono essere letti attraverso un’articolazione tripartita a seconda della loro derivazione: folklorica (le forme propriamente denominate trallaleri), popolaresca (le canzoni), colta (le arie d’opera). Questa tripartizione si riflette in alcune differenze stilistiche di un certo rilievo leggibili anche a distanza di tempo nella condotta delle parti e nella struttura dei brani, ad esempio con la tendenziale esclusione nelle canzoni e nelle arie d’opera dei ritornelli costruiti su testo nonsense che costituiscono uno degli elementi maggiormente caratterizzanti di questa pratica vocale.

L’assimilazione di tratti colti non si traduce tuttavia nella perdita di una sostanziale autonomia che si declina in una solida articolazione di estetiche di riferimento. Vi è anzi una fortissima rielaborazione e risignificazione che determina l’accentuarsi di peculiarità stilistiche significative: basti pensare alla presenza del contralto maschile o della chitarra, che non hanno equivalenti né in ambito colto e semi-colto, né in ambito folklorico, e che costituiscono certamente uno dei frutti di tale rielaborazione. Inoltre, nonostante vi sia negli anni fra le due guerre una maggior tendenza di alcune squadre a preparare performances “studiate” in occasione di gare ed esibizioni nei luoghi dotati di maggior prestigio sociale, il contesto di riferimento principale rimane quello dell’osteria, del bar, della latteria, dove il canto mantiene aspetti marcatamente ludici che si traducono in una certa libertà nella conduzione delle parti e in ampi margini improvvisativi nell’uso degli abbellimenti, con una conseguente variabilità tra esecuzione ed esecuzione. In sostanza, il trallalero non si trasforma in un genere popolaresco, ma rimane una pratica in grado di generare nuovi modi di cantare insieme, sia rispetto agli antecedenti folklorici, sia rispetto ai modelli colti: rimane cioè espressione di una classe lavoratrice i cui modi di stare insieme e produrre musica non sono pienamente assimilabili alle logiche dei modelli colti e popolareschi.

I brani proposti nei link sono stati eseguiti dai Giovani Canterini di Sant’Olcese, che, attivi dal 1993, sono attualmente una delle squadre di canto più note a Genova. Diretti da Paolo Besagno, i Giovani Canterini di Sant’Olcese, oltre a conoscere e a eseguire regolarmente i repertori consolidati del trallalero, propongono anche brani composti da Besagno nello stile tradizionale. Uno di questi, O trallalero canson de na vitta, è stato portato nel 1996 dalla scquadra al Festival Musicultura (allora Premio Città di Recanati), ed è stato premiato come vincitore. Negli ultimi anni hanno collaborato a diverse iniziative con gli istituti liguri del MiBACT.

Bibliografia essenziale

BALMA, Mauro

1984   ‘Il trallallero genovese: trascrizione e analisi del repertorio di tradizione orale’, Culture musicali, 5-6.

2001   Nel cerchio del canto. Storia del trallalero genovese, Genova, Editore De Ferrari.

BALMA, Mauro e Giuliano D’Angiolini

1984   ‘Il trallallero genovese: trascrizione e analisi del repertorio di tradizione orale’, Culture musicali, 5-6.

2019   Alle origini del trallalero genovese, Udine, Nota.

LEYDI, Roberto

1984   ‘Saggio di discografia delle squadre di canto liguri’, Culture musicali, 5-6.

NEILL, Edward

1984   ‘Il trallallero genovese: storia e caratteri essenziali’, Culture musicali, 5-6.

Parodi, Laura

2018   Trallalero! Il canto di Genova: Storie e testi, Savona, Pentàgora.

 


[1]La composizione esclusivamente maschile delle squadre di trallalero ha finora conosciuto rarissime eccezioni. Attualmente l’unica donna che canta in una squadra di trallalero è Laura Parodi, canterina e autrice di ----- che hanno luogo nelle osterie

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#LACULTURANONSIFERMA. #IOGIOCOACASA. Il Gabinetto delle Stampe: i giochi di percorso di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini, Anna Sicurezza e Leandro Ventura

Il Gabinetto delle Stampe dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale conserva tra i giochi di percorso una raccolta molto ampia di giochi dell’oca, che vi abbiamo già raccontato nell’appuntamento del 9 aprile. La giornata di oggi è dedicata alle mille varianti che dal gioco dell’oca traggono le loro origini. Percorsi immaginari che ci portano a scoprire il mondo, le rivoluzioni tecnico-scientifiche, gli sport più in voga e gli intenti pedagogici del tempo.
Le tipologie più antiche conservate presso l’Istituto spaziano dalla stampa settecentesca del Pela il chiu a un Gioco del pellegrino ottocentesco, molto originale nel suo genere, fino al Gioco del barone, di cui la raccolta romana conserva alcuni esemplari più recenti.

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Su e giù per Milano, fine XIX secolo, cromolitografia, casa editrice G. Sassi e c., Milano (ICPI, Gabinetto delle stampe)


Dalla fine del XIX secolo si affermano una serie di giochi legati alla tematica del viaggio, dal giro intorno al mondo ispirato all’omonimo romanzo di avventure di Verne, alla scoperta delle “bellezze italiane”, come nel Gioco dei castelli o in Su e giù per Milano, città che compare anche nel Gioco del tramway. Quest’ultima litografia, di fine Ottocento, non è solamente la celebrazione di una conquista tecnica, ma è l’intera città che offre la sua immagine attraverso il tram che della modernità costituiva il simbolo in voga.
Il tema del viaggio si conclude con il Gioco dell’autostrada del sole, che, inaugurata nel 1964 con due mesi di anticipo, racconta una pagina di storia italiana.
Altri giochi di percorso sono invece dedicati allo sport, dalle corse dei cavalli a quelle degli uomini, con corridori di inizio Novecento che si affrontano in una gara di resistenza a piedi. La relazione fra gioco e sport testimonia il legame di continuità fra i due temi. Il giocare è un fenomeno dai confini indefiniti che va dallo sport alle abilità manuali, dalle attitudini logiche fino all’apprendimento didattico.

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Giuoco sport. Gara di resistenza a piedi, 1902-1906, litografia colorata, editore Eliseo Macchi, Milano (ICPI, Gabinetto delle stampe)


Nel gabinetto delle stampe, infatti, una sezione dei giochi da tavolo è rivolta ai bambini con un chiaro fine pedagogico, come si evince già dal titolo Il nuovo giuoco istruttivo del canestro. Lo stesso fine didattico si può cogliere tanto nel Giuoco di Pinocchio quanto in quello del giardino zoologico.
Un ulteriore spazio di azione è quello della trasmissione di messaggi pubblicitari, di cui un chiaro esempio è il gioco di percorso della Bayer, che incornicia i margini della tavola con le immagini delle medicine di sua produzione, dall’aspirina a un emolliente per le vie respiratorie. Il titolo della stampa, mai così attuale come in questi giorni è, ironicamente, Tutti a casa.
L’homo ludens affronta il gioco come un’attività seria, nella quale la formula di introduzione “vuoi giocare?” dispone i partecipanti a rispettare regole precise e condivise. Ancora oggi molti tra i più diffusi i giochi di società riprendono, in nuove attuali varianti, percorsi a caselle che si snodano tra abilità individuali e pura fortuna, capacità di creare e ricreare ogni volta terreni di gioco sempre diversi. Che siano i grandi o i piccoli a fare conto sulle proprie abilità, a misurarsi con il rischio e con la sorte, perdersi in una dimensione diversa dalla realtà attraverso i giochi di percorso è una sfida sempre attuale.

Per provare, potrete stampare e ri-usare due tavole della nostra collezione: avrete la possibilità di viaggiare con la fantasia, affrontando avventure e pericoli inattesi, attraverso un giro del mondo di fine Ottocento; oppure potrete percorrere il mondo fantastico di Collodi, grazie a un Giuoco di Pinocchio della prima metà del Novecento.
Vi diamo appuntamento a giovedì prossimo per la tombola, la dama, gli scacchi e altri giochi conservati presso le raccolte dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale.

 

Bibliografia
Stampe popolari italiane dal XV al XX secolo, a cura di P. Toschi, Milano 1968
S. Mascheroni, B. Tinti, Il gioco dell’oca: un libro da leggere, da guardare, da giocare, Milano 1981
Fabbrica d’immagini, gioco e litografia nei fogli della Raccolta Bertarelli, a cura di A. Milano, Milano 1993
R. Callois, I giochi e gli uomini, Milano 2014

Sitografia
http://www.giochidelloca.it/ 
http://graficheincomune.comune.milano.it/ 


Testo e video di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini e Anna Sicurezza, con la preziosa collaborazione di Massimo Cutrupi, Marco Marcotulli e Leandro Ventura.

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#LACULTURANONSIFERMA Le parole chiave del patrimonio im-materiale: il Pellegrinaggio (a cura di Simone Valitutto)

Simone Valitutto (Antropologo, Università di Salerno) ci introduce al tema del Pellegrinaggio. 

Di seguito una bibliografia essenziale a cura dell'autore con “classici” dell’antropologia e riflessioni recenti che tratteggiano metodologie d’indagine differenti:

Albera D., Blanchard M. (a cura di), Pellegrini del nuovo millennio. Aspetti economici e politici delle mobilità religiose, Mesogea, Messina 2015

Apolito P., Il tramonto del totem. Osservazioni per una etnografia delle feste, Franco Angeli, Milano 1993

Buttitta I., I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa, Meltemi, Roma 2006

Dupront A., Crociate e pellegrinaggi, Bollati Boringhieri, Torino, 2006 [1993]

Eberhart H., Simonicca A. (2005), Pellegrinaggio e ricerca: tendenze e approcci attuali, in «Lares»71(1), pp. 73-98 2005. 

Faeta F., La madre di fuori. Un pellegrinaggio, l’antropologia e la storia,in Id.,«Questioni italiane. Demologia, antropologia, critica culturale», Bollati Boringhieri, Torino, pp. 171-208 2005

Galasso G., L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Guida, Napoli 2009 [1982]

Gallini C., Il consumo del sacro. Feste lunghe in Sardegna, ILISSO, Nuoro 2003 [1971]

Mazzacane L., Lombardi Satriani L. M., Perché le feste. Un’interpretazione culturale e politica del folklore meridionale, Savelli, Roma 1974

Rossi A., Le feste dei poveri, Laterza, Bari 1971 [1969]

Turner V, Turner E., Image and pilgrimage in Christian culture, Columbia University Press, New York 2011 [1978]

Turner V, Turner E., Il pellegrinaggio, Argo, Lecce 1997

Van Gennep A., I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1981 [1909]

Per orientarsi tra i numerosissimi documentari etnografici che affrontano il tema dei pellegrinaggi nell’Italia centro-meridionale, seguendo prospettive e approcci diversi (Pozzi Bellini: considerato il primo documentario sul tema; Di Gianni: una selezione sull’argomento di uno dei più importanti documentaristi italiani; Mangini: ricerca cinematografica che si slega dal genere documentaristico tout court; Teti: ricerca audiovisiva di un antropologo; Celesia: approccio contemporaneo tra documentario e fiction), segnalo questo elenco:

materiali audio-visivi nel video

Alessandra Celesia

Anatomia del miracolo (2017)

Luigi Di Gianni

La Madonna di Pierno (1965)

Il male di San Donato (1965)

I fujenti (1966)

Il culto delle pietre (1967)

La nascita di un culto (1968)

La Madonna del Pollino (1971)

Montevergine (1971)

Morte di Padre Pio (1971)

Cecilia Mangini

Divino Amore (1964)


Giacomo Pozzi Bellini

Il pianto delle zitelle (1939)

Vito Teti

Polsi (1980)

SS. Cosma e Damiano (1980)

La Madonna del Pettoruto (1981)

La Madonna del Pollino (1981)

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#LACULTURANONSIFERMA. MusichEmigranti. Un archivio e un progetto editoriale dell’Università di Roma “Tor Vergata” di Serena Facci

Quando nel 2013 ho cominciato una ricerca su musica e migrazione a Roma pensavo di essere arrivata in un momento di stabilità rispetto a un processo avviato nei precedenti venti anni.

Ormai diverse comunità si erano sedimentate nella città, avevano creato proprie associazioni, e proprie consuetudini. Avevano ottenuto e talvolta edificato spazi significativi di ritrovo e soprattutto di preghiera, tentato, grazie all’aiuto di molte associazioni, momenti di condivisione culturale con i “vecchi romani”. Le occasioni del fare musica erano molte, soprattutto nelle feste e nei riti.

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Coro della chiesa cattolica Ucraina di S. Sofia. Inaugurata a Roma nel 1969.

Pensavo che potesse essere interessante, e forse anche utile, avviare una ricerca etnomusicologica finalizzata alla realizzazione di un archivio audiovisivo in cui raccogliere un’ampia testimonianza di come il carattere musicale della città fosse cambiato e si fosse, a mio parere, profondamente arricchito.

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Giubileo dei Migranti e dei rifugiati. Piazza S. Pietro, Roma 2016.

Altri del resto avevano documentato diverse esperienze culturali dei “nuovi romani”, come Sandro Portelli con il Circolo Gianni Bosio, per il progetto “Roma Forestiera”, e aveva pubblicato una prima raccolta antologica in CD, Istaraniyeri. Musiche migranti a Roma.
La ricerca dell’Università di ”Tor Vergata” si è incentrata in particolare sulla musica sacra.

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Coro e strumentisti della comunità cattolica Nigeriana.
Festa dei popoli. Basilica di S. Giovanni in Laterano, Roma 2018.

In una città come Roma, così profondamente segnata dalla antica storia religiosa che ne ha fatto da secoli un luogo cosmopolita e abituato alla pluralità delle presenze, i repertori religiosi, e in particolare, cristiani, sono un buon punto di osservazione per comprendere le dinamiche migratorie.
I culti in genere prevedono, in qualunque religione, una organizzazione dei suoni (siano essi considerati musicali o meno) che è chiaramente caratterizzata in senso geo-culturale. Cantillazioni, inni, canti formulaici, musiche strumentali e anche danze inoltre devono essere eseguiti “dal vivo”, coinvolgendo necessariamente cantori o strumentisti, più o meno esperti ma comunque assolutamente necessari alla buona riuscita del rito stesso.

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Processione per la festa di San Michele. Chiesa eritrea ortodossa, Roma 2017.

Insieme ad altri più giovani studiosi siamo quindi saliti su un treno in corsa con l’idea di scattare un’istantanea di cosa stava avvenendo nelle chiese in cui si radunavano le comunità di immigrati per le loro celebrazioni liturgiche.
Insieme a me hanno lavorato dottori di ricerca e dottorandi: Alessandro Cosentino, Vanna Viola Crupi, Maria Rizzuto, Blanche Lacoste, Giuseppina Colicci e molti studenti. Anche una collega dell’Università “Sapienza”, Grazia Portoghesi Tuzi.

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Vanna Viola Crupi con il coro della chiesa Nigeriana.
Festa dei popoli. Piazza S. Giovanni in Laterano, Roma 2014.

Abbiamo verificato l’esistenza di una realtà molto dinamica e nel corso di questi sei anni abbiamo seguito le comunità e le loro attività musicali, esposte continuamente a mutamenti in gran parte caratteristici degli attuali movimenti diasporici (partenze, arrivi, momenti di crisi nei paesi di origine o in Italia, alternanza nella leadership e nella composizione dei cori, ecc.).

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Comunità Ucraina. Commemorazione delle vittime di Holodomor.
Piazza del Popolo, Roma 2017.

Il nostro lavoro è stato sempre confortato dalla disponibilità di tutte le comunità e, nel corso degli anni, abbiamo cercato la collaborazione di altre organizzazioni con le quali condividevamo finalità e idee. In particolare abbiamo stretto una Convenzione con l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del MIBACT e con l’Ufficio Migrantes del Vicariato di Roma.
Abbiamo documentato liturgie domenicali e momenti dell’anno liturgico. In particolare il Natale e la Settimana Santa.

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Chiesa Georgiana ortodossa.
Benedizione delle palme. Roma 2016.

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Comunità Malabarese. Via Crucis, Roma 2015.

Abbiamo seguito diverse comunità in occasione di celebrazioni dedicate a Santi da loro particolarmente venerati. 

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Coriste della chiesa Georgiana. Processione per la Pasqua, Roma 2018

Abbiamo documentato come i repertori musicali, di tradizione scritta o orale, che hanno alle spalle storie talvolta di lunghissima durata siano resi viventi nell’attuale quotidiana pratica religiosa. I vecchi codici e le loro trascrizioni, testimoni della complessa evoluzione delle musiche sacre, assieme a nuovissime composizioni costituiscono un patrimonio immenso e continuamente rimaneggiato, appreso spesso attraverso documenti o tutorial diffusi grazie a Internet, adattato alle capacità musicali dei sacerdoti e dei coristi.

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Lettura cantata delle preghiere. Chiesa rumena ortodossa.
Parrocchia dell’Assunzione di Maria, Roma 2014.

Queste esecuzioni musicali non devono essere valutate in base alla qualità tecnica ed estetica (talvolta peraltro di alto livello), ma piuttosto bisogna misurarne l’efficacia anche in termini sociali.
Spesso i fedeli ci hanno detto che ascoltando i canti in chiesa si sentivano “a casa” oltre che più vicini a Dio.

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Chiesa Georgiana ortodossa.
Saluti alla fine della Liturgia domenicale, Roma 2017.

Quei suoni risvegliano memorie ed emozioni per chi entra in sintonia con loro. Aiutano a riconoscersi, ma nello stesso tempo a dialogare laddove capita di incontrare interesse, come è stato nel nostro caso. Alcuni di noi sono stati direttamente coinvolti anche come musicisti e l’esperienza è stata sempre molto bella sia per noi sia per le comunità e soprattutto per i musicisti con i quali si è creato un rapporto di stima e di maggiore confidenza.

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Alessandro Cosentino e Alípio Carvalho Neto partecipano al concerto del gruppo Malaika, diretto da Cola Lubamba.
Sala Paolo VI, Città del Vaticano 2014.

I coristi e gli strumentisti, che spesso vengono ringraziati dai fedeli alla fine delle funzioni, sono consapevoli dell’importanza del loro ruolo. Pur tra molte difficoltà (svolgendo spesso lavori molto impegnativi) i direttori e le direttrici elaborano e preparano nuovi repertori e i coristi si esercitano, magari ripassando durante il lavoro la loro parte, con l’aiuto di registrazioni arrivate sul cellulare.

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Halena Hromeck e il coro della chiesa Ucraina durante le prove.
Chiesa dei SS Sergio e Bacco, Roma 2020.

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Angela Ndawuky Mayi dirige il coro della chiesa congolese.
Basilica di S. Lorenzo in Damaso, Roma 2015.

Dopo diversi anni abbiamo pensato di dare una visibilità concreta al nostro lavoro e all’importante contributo culturale dei musicisti con cui abbiamo lavorato. MusicEmigranti, per la casa editrice Neoclassica, è una collana di agili libri ai quali sono abbinati documenti audiovisivi che provengono dal nostro archivio, aperta però anche al contributo di altri studiosi.

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Presentazione del libro Esengo. Libreria Griot, Roma 2020.

I volumi sono dedicati a singole comunità o a singoli argomenti che riguardino il rapporto musica e migrazione. In questo modo vogliamo contribuire alla generale riflessione che su questo tema si è da tempo avviata a livello internazionale, ma anche restituire alle comunità, che con tanto interesse hanno collaborato al nostro progetto, i materiali, le narrazioni e le riflessioni che in questi anni abbiamo raccolto grazie al loro contributo. Il primo volume pubblicato è Esengo. Pratiche musicali liturgiche della chiesa Congolese di Roma, di Alessandro Cosentino, frutto di un complesso dialogo tra l’autore e diversi membri della comunità. 

 

Testo di Serena Facci.
Foto di Giuseppina Colicci, Alessandro Cosentino, Vanna Viola Crupi, Antonella Di Cuonzo, Serena Facci, Blanche Lacoste.

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#LACULTURANONSIFERMA. Quarantena di parole. Note dal taccuino nero di Letizia Bindi (Università degli Studi del Molise)

Il primo decreto mi ha colto in Molise, facendo sì che per ragioni complesse vi rimanessi, nonostante il blocco delle attività in presenza e la possibilità di rientrare alla mia residenza. Così, nella mia dislocazione strutturale, tra i tre poli di vita rappresentati dal Molise, la Toscana e la Lombardia, il tempo della mobilità forsennata si è bruscamente arrestato, congelando i diversi pezzi della mia famiglia in luoghi diversi e consegnandoci un tempo di lavoro a distanza e affetti in videochiamata. La campagna dove mi trovo a vivere è quella di un territorio che conosco bene, un mio 'campo etnografico', divenuto col tempo un luogo di vita, di amicizie e famiglia. 

Per diverso tempo il virus è rimasto sullo sfondo, per certi versi lontano, nonostante qualche allarme, dal contagio più prossimo. Solo, di tanto in tanto, il timore di qualche quarantena. Eppure questo osservatorio appartato mi pare fornire qualche spunto per una osservazione dell'epidemia da un'area per certi versi periferica, riposta, lontana rispetto alle grandi mobilità e ai poli più a rischio, con le sue dinamiche difensive e simboliche.
Come in tutto il Paese, il tappeto informativo è stato e resta imperversante, ad alimentare quel contagio secondo cui “le informazioni ed emozioni si trasmettono da una persona all’altra come si trattasse di un virus”, rilevate e analizzate nelle loro interne dinamiche dagli studiosi della Scuola di Chicago e dai teorici della folla e del condizionamento delle masse (Park-Burgess 1921, ad esempio.) Tuttavia, ciò che qui colpisce è un diffondersi accanto alla comune paura del contagio di un timore del controllo, una osservanza impaurita delle regole sulla mobilità che sembra più dettata dal rischio delle sanzioni che da quello della malattia (Cohen 1971). Si diffondono racconti elaborati, storie esemplari, ribattute in infinite conversazioni telefoniche su persone bloccate sulla via dell'orto o denunciate per aver cercato di andare a prendere il pane per la madre. Un tema frequente è legato alla privacy circa i casi di contagio, rispetto ai quali si scatenano polemiche, perché qualcuno avrebbe fatto i nomi dei contagiati, come se fosse un marchio e non una pratica utile al contrasto dell'epidemia. Si riattiva rispetto al virus quello stigma verso l'untore che prescinde dalla natura della malattia e dalle forme del suo passaggio, ma anche quell’omertà rispetto alla morsa del controllo sociale che fu già oggetto della riflessione degli studiosi degli anni Cinquanta che notavano come vi fosse nelle società contadine “una sfiducia quasi patologica nell’«altro mondo» (quello del governo e della nobiltà paesana che, essi credono, cerca continuamente di ingannarli)” (Friedmann 1952). Un senso diffuso del controllo e della repressione si affaccia, memoria relativamente recente di una condizione subalterna e piena di paura, per molti. Rispetto al rischio di essere bloccati dalle forze di polizia, prevale una rappresentazione sconveniente, criminalizzata. Un'evenienza da evitare con ogni cura, come fosse cosa prossima all'incorrere in comportamenti criminali gravi. Si racconta, ad esempio, che tizio o caio hanno incontrato una pattuglia che ha loro chiesto generalità e motivi dello spostamento. Lo si fa abbassando un poco la voce, come quando nei paesi si narra qualcosa di sapido e sconveniente a carico di una persona. Prevale l'idea che non lo si debba dire, come una vergogna e di fronte a ognuno di questi avvenimenti si rafforza l'idea di dover rimanere a casa per non incorrere in sanzioni.
Si infittiscono le comunicazioni telefoniche, un continuo circuito di chiamate di rassicurazione sullo stato di salute specie all'indirizzo dei parenti trasferiti nel Nord Italia o all'estero. Rispetto a questi prevale preoccupazione e compassione, a rafforzare il senso già persistente di un doloroso e inesorabile destino migrante, di che ha dovuto rinunciare alla vicinanza della famiglia e alla propria terra "pe fatjà". Le relazioni si strutturano in quell’intreccio emozionale e di negoziazioni tra aspettative e negazioni, tipico delle famiglie dislocate a causa delle diaspore (Baldassar 2007, 2014).
La consistenza dell’epidemia appare vaga: le notizie, che pure si ascoltano con una certa attenzione, sembrano non essere comprese a fondo. Soprattutto circa le modalità del contagio non c'è chiarezza, tendendo a pensare a una diffusione aerea del virus e non da prossimità e contatto con superfici, allargando con ciò enormemente l'area della paura e del sospetto. Anche il rapporto ai cibi è soggetto a modifiche. In alcuni di coloro che vivono in campagna cresce la diffidenza verso i prodotti esterni, che già è piuttosto alta in genere, una ricerca se possibile ancora maggiore di autonomia alimentare come a difendersi dal contagio attraverso la non ingestione o contatto con nulla che sia stato prodotto fuori.
Le categorie di contaminato e incontaminato si ispessiscono e complessificano. Cresce il senso di un bisogno di “immunità” che è in primo luogo condizione separata, possibilità di non mescolarsi e di poter stare a casa in sicurezza. Una condizione immune che se è per altri forma del privilegio – come Roberto Esposito ci ha ben mostrato (Esposito 2002) -, nelle aree rurali e periferiche sembra tingersi di una volontà esplicita di evitazione. Si riconferma, nei minuti gesti di ogni giorno, una volontà di protezione del proprio, del sé - contenuto e delimitato corporalmente dal nostro limite, dalla pelle, dalle mucose da proteggere, una sindrome della protezione dei confini del nostro corpo (Canetti 1992) che è metafora della nostra identità personale e traslatamente dell’intero gruppo cui si appartiene (famiglia, località, ceto). Una “regola della purezza” (Douglas 1966, 1970) che non a caso tiene insieme controllo fisico e sociale insieme con un complesso reticolato di evitazioni e continenze che dovrebbero preservarci fisicamente, così come distanziarci socialmente.
Rispetto al fluire delle informazioni si alterna la compulsiva lettura e ascolto di notizie (tra tv e il chiacchiericcio dei social) e un certo rifiuto, ciò per evitare di riceverne messaggi troppo inquietanti e che sembra quasi non si sappiano gestire. 
Diffusamente si affaccia un timore dell'incontro, la condanna di comportamenti troppo sociali, un continuo raccomandare di stare a casa e di evitare ogni forma di contatto. Ogni forma di socialità innovata e di riorganizzazione delle relazioni conseguente all'isolamento viene bollata come frivola o destituita di senso, come nel caso delle chiacchiere di vicinato o dei flashmob o ancora i meeting virtuali che vengono giudicate come leggere e un po' superficiali.
C'è compassione verso i lutti e la solitudine dei malati deceduti senza l'affetto dei loro cari, ma prevale anche una distanza che implode non appena il racconto o le notizie provengono da qualche parente lontano, portando la crisi della presenza e l’angoscia irrelata della perdita nella sfera stessa del familiare (De Martino 1958). Grande è la preoccupazione verso i propri anziani e la responsabilità estrema del garantire loro cure e immunità. In ragione di questo l'osservanza delle regole di esclusione è molto ligia, intrecciata com'è anche a un timore costante delle sanzioni e dell'incontro con le forze dell'ordine impegnate nei blocchi. In molti prevalgono preoccupazioni per il raccolto, essendosi cumulate queste settimane con una prolungata siccità. Si vive questo aspetto e l'impossibilità di collaborare con persone esterne al nucleo familiare in campagna come una grave conseguenza del virus e con la percezione acuta del rischio di una cattiva annata.
In molti hanno visto nella prima sospensione sopraggiunta, quella delle celebrazioni di San Giuseppe, momento alto in molte di queste comunità di incontro e socialità, è come segno di un tempo irrimediabilmente cambiato. “È la fine du munn’”, ho sentito esclamare a più di una persona e subito dopo: “vedrai, quest’anno non esce neanche il Santo”. Nell'intimo delle famiglie si sono conservate alcune pratiche - pasta con la mollica e zeppole di San Giuseppe, osservanza del venerdì di magro per la Quaresima. Ci si telefona, per ricordarsi della festa. Qualcuno porta le zeppole ai genitori anziani, le consegna a distanza, perché lavora fuori e “non vuole rischiare”. Così si mangiano le zeppole da soli e la mollica farcita è sempre troppa, pensata com’era per i pasti familiari e sociali di ‘prima’. Altri insistono sull’anno bisestile come 'annus terribilis' e sfortunato.
Eppure più forte ancora è la preoccupazione circa il rischio di una sanità già fragile e smantellata da progressive e recenti chiusure dei presidi ospedalieri: dal racconto di medici distratti alla preoccupazione per un sistema impreparato all'ordinario prima ancora che all'emergenza. Dalle periferie di una sanità eccellente, dove lo smantellamento del sistema ospedaliero e della sanità pubblica ha toccato livelli profondi di destrutturazione (chiusura di ospedali, sanità commissariata, ritardi colpevoli nell’acquisto anche dei minimi presidi), la percezione unica e sola è che se dovesse arrivare il contagio con prepotenza, qui si sarebbe spacciati. Consapevolezza acuta di una fragilità e distanza che è in primo luogo negazione di piena cittadinanza, marginalità politica e invito implicito, ma neanche tanto, ad abbandonare. 
In molti in queste settimane stanno iniziando a riflettere sull’effetto rivelatore che questa epidemia porta al cuore stesso del sistema neo-liberista, al suo nient’affatto sottile baratto tra massimizzazione dei profitti e rinuncia alla salute che oggi ci si ritorce pericolosamente contro. Ma dai margini dei sistemi economici e con essi anche sanitari, dalle periferie dei “biopoteri” questa percezione diventa una sorta di mesto lamento, una rassegnata presa di coscienza del fallimento “del contratto implicito tra gli Stati moderni e cittadini” che consisterebbe nel “garantire la sicurezza e la salute fisica” o per lo meno adeguata assistenza sanitaria (Illouz 2020). Sale, così, l'insofferenza verso la politica locale tra disillusione e convinzione di insufficienza delle decisioni e azioni intraprese. Eppure, impotente, cresce una sensazione di isolamento e abbandono che è già presente diffusamente nei discorsi e nei sentimenti quotidiani delle persone: senso di essere dimenticati, tralasciati, irrilevanti. “Ch’emm a fá, chess’è”, come in un trito ritornello.
Non ho alcuna pretesa, né intenzione di dire cose definitive su ciò che sta accadendo, rispetto a cui sento, forte, la necessità di riflettere, annotare, studiare. È difficile, infatti, farsi un’idea in queste poche, concitate, seppur immobili settimane, circa le misure adottate – simboliche, pratiche – dalle comunità e dagli individui per gestire e maneggiare la paura e lo straniamento, il contenimento forzato e la percezione di una necessaria rinuncia alle nostre libertà in cambio della nostra incolumità. Dal campo che implicitamente mi trovo ad osservare non mi pare emergere con la forza, a tratti retorica, evocata dai media, un particolare afflato collettivo, uno speciale senso di comunità e di solidarietà. ‘The places left behind’ (Wuthnow 2018) sembrano sentire acutamente la precarietà e il pericolo che potrebbero derivare dalla pandemia. Consapevoli di un destino minore, di una maggiore fragilità dell’assistenza e del sistema dei servizi sembrano sfiduciati sulle possibilità di tenuta nel caso il contagio dovesse loro avvicinarsi maggiormente.
Al contempo incorporano la regola, la rielaborano nelle forme di un potere lontano e vessatorio che segna con le sue pratiche di contenimento i tracciati dei corpi, contenendone le esigenze e i desideri. Allontana i nipoti e i figli dagli anziani, consegnandoli a una cura di sostentamento, in molti casi, fatta di distanze regolamentari e di spese lasciate sulla porta. Toglie la certezza di certi momenti corali di ritrovo: le feste comandate in cui i giovani trasferiti altrove tornano, in cui si è di nuovo in molti intorno alla tavola, che oggi resta vuota. Allontana i vivi dai loro morti, toglie – lo hanno rilevato in molti – la pietas del cordoglio a società che ne hanno fatto il loro modo di non passare con ciò che passa, di non essere travolti e inghiottiti dalla negazione della morte (De Martino 1958). Nell’incertezza e nella paura che attraversa questi giorni, sembra ravvivare sistemi di credenza e di pregiudizio verso i potenziali portatori di contagio, di paura del controllo da parte dell’ordine costituito. La ferita portata al cuore delle comunità delle aree interne, la paura e il disagio, il senso di abbandono, ha scavato in molti un senso di rinuncia e di impotenza. Questo non apre il cuore, al contrario fa temere ancora di più che il poco che resta ne risulti minacciato. Serra le porte.

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Transumanza. Amatrice, 17.09.19 (Ph. L. Bindi)

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Pascolamenti. Amatrice, 25.01.19 (Ph. L. Bindi)

Nel contempo dai territori e dalle comunità con cui lavoro mi giungono ogni giorno telefonate, post, messaggi privati. Con alcuni di loro ho parlato a lungo. Con i pastori, ad esempio, che mi hanno raccontato una loro speciale insofferenza verso l'epidemia: la ridotta mobilità, il crollo del mercato delle carni (c'era la Pasqua alle porte, che ci piaccia o meno), la riduzione drastica degli acquisti caseari in azienda. Solo chi si era già organizzato da tempo con i gruppi di acquisto e la distribuzione di piccolo e medio calibro sta conoscendo un momento di relativa crescita o stabilità delle vendite. Quelli che si erano anche organizzati e ripensati come agriturismi assistono impotenti, come tutto il comparto turistico, a una crisi drammatica di presenze, alla cancellazione delle prenotazioni per la stagione alle porte. Alcuni artigiani, connessi alle attività pastorali, così come alcune aziende agricole, abituate a una discreta vivacità del mercato urbano circostante grazie alla vendita dei loro prodotti biologici e di qualità, mi raccontano la diminuzione degli acquisti a distanza e, ovviamente, l’isolamento totale di queste settimane. Non è detto che questa epidemia porti automaticamente a una nuova consapevolezza in tema di produzioni a filiera corta e a basso impatto ambientale. Ho ascoltato molte conversazioni nei supermercati di paese che inneggiavano ai maggiori controlli della grande distribuzione come una garanzia di maggiore 'pulizia' dei generi alimentari.
E poi c’è la paura di non poter celebrare le feste: la chiamerei – parafrasando Erri De Luca – “il giorno prima della fine della fine della felicità” (De Luca 2017). Una paura che in molti casi si è già trasformata in certezza. Il virus ha spazzato via le calche che in tante occorrenze cerimoniali sono al cuore stesso di quel sentirsi uniti, accalorati ed entusiasti accanto agli altri devoti e partecipanti, quella ostentazione di saper fare e senso della fede che è al cuore stesso di tante pratiche rituali. Ho parlato con gli uomini che corrono sui carri, presi come sono già a difendersi dagli attacchi animalisti e dai problemi inerenti la sicurezza negli eventi pubblici, che oggi più che mai patiscono il blocco imposto dall’epidemia alle loro celebrazioni. Ho parlato con le famiglie che camminano in processione con i loro carri infiorati per le feste di maggio che hanno sospeso dolorosamente la preparazione dei fiori e l’allegra pratica della doma nelle strade di campagna.

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Carrese di San Pardo. Larino, 27.05.19 (Ph. L. Bindi)

Ci siamo confrontati con i colleghi con cui collaboro a progetti comuni: i colleghi sudamericani, con i quali eravamo insieme pochi mesi orsono. Quelli delle fattorie sostenibili e inclusive delle aree amazzoniche e delle terre alte, preoccupati che il virus interrompa i progetti appena avviati dalle loro comunità rurali; quelli delle comunità pastorali della Patagonia che temono più la miseria e l’esproprio giornaliero di terre e risorse da parte delle grandi multinazionali delle carni e della lana che la pandemia virale. Mi chiamano dall'Albania i colleghi e i pastori del Kelmend che sperano strenuamente nelle prospettive della transumanza, nel freddo tardivo di aprile e nella più dura povertà. Non ignari del coronavirus, ma come intirizziti da un altro freddo, quello della marginalità economica e sociale delle aree montuose dell'Europa orientale.

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Agricoltori. Neuquén - Argentina, 13.05.19 (Ph. F. Pilla)

Mi chiama e mi scrive, quasi ogni mattina Edoardo, dal Venezuela, che non ho mai visto e dovevo incontrare a maggio prossimo sulla strada di Sanare, nello Stato di Lara, per percorrere insieme con i buoi aggiogati e infiorati la via processionale di San Isidro Labrador, il santo contadino. Mi dice che inizia a temere, che nel pueblo i contagi sono 77 e i postivi 15 e non sanno che potrà succedere se dovessero aumentare, che la crisi ha messo fuori uso i già lontanissimi ospedali e hanno paura. Poi mi dice che spera che San Isidro ci protegga insieme con “los ancestros guardianes de la tradición” (Pollak – Elz 1994; Vargas 1987) e che io possa essere con loro a festeggiare quest'anno, che ha tante cose e persone importanti da mostrarmi e farmi incontrare.

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San Isidro Labrador: Aspettando la processione. Sanare - Venezuela, 15.05.19 (Ph. E. J. Torrealba)

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San Isidro Labrador: Immagine sacra. Sanare - Venezuela, 15.05.19 (Ph. E.J. Torrealba)

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San Isidro Labrador: Processione. Sanare - Venezuela, 15.05.18 (Ph. E. J. Torrealba)

Alcuni mi chiedono quasi per scaramanzia se penso che avremo o meno superato la crisi per questa o quest’altra data. Molti già sanno che non sarà così.
Io non so rispondere e con loro, nell'imbarazzo storto della mia laicità piena di rispetto per le devozioni, mi convinco di quanto quelle pratiche siano cruciali per loro e per me e come tutti noi, anche chi ne vive lontano, senza saperne o quasi, beneficiamo di quelle pratiche, seppur indirettamente. Archivi di memoria e di senso, varianti del vivere insieme, cangiante repertorio del mondo. Forse, se non veniamo travolti dalla disperazione e dal senso di abbandono, è anche perché c'è questo fondo generativo di speranza e di aspettative che giace ai piedi di ogni assembramento che non sia pura casualità, ma abbia deciso di organizzarsi intorno a un racconto fondativo o a una pratica condivisa. E ogni giorno, tristemente, ricevo sconsolati messaggi che le occasioni festive sono state annullate, a colpi di decreti e di delibere. “Frasi d’amore scritte a macchina” – scriveva anni fa Paolo Conte, per raccontare la freddezza del linguaggio istituzionale applicato a ciò per cui si ha e si è avuto cura e affetto.
Infine penso a ciò che questo tempo mi insegna etnograficamente: alla pausa che mi concede da un compulsivo viaggiare, al tempo che mi da per scrivere note e riflessioni che si sovrappongono al cadenzario usato di consegne accademiche ed editoriali, solo parzialmente modificate dal tempo del “lavoro a distanza”. Nel distanziamento sociale e nella sua ricezione c’è una sfida cruciale per l’etnografia che va ben oltre la dicotomia generativa degli sguardi “da lontano” e “da vicino”. Sfida il cuore stesso dell’incontro etnografico, rendendo ancor più radicale la riflessione metodologica.
Al tempo stesso rifletto sull’insofferenza che provo per tutti gli scritti che parlano di questo tempo come opportunità. Non riesco a pensare al lutto e la morte come occasione per riflettere. Non voglio averne bisogno. Questo tempo non mi piace e non mi appartiene. Sono calma eppure riottosa. Infastidita dal quasi sottile compiacimento che in molti percepisco per l’obbedienza e la conformità alle regole. Resto a casa per responsabilità, ma non ci trovo niente di speciale. Preferisco il tempo della strada e del camminare con gli altri spalla a spalla, fianco a fianco. Il tempo delle mescole e degli assembramenti. Non saprei dire se, come da molte parti ci viene detto e ripetuto, questa pandemia ci lascerà migliori. Al contrario penso che questo continuo riferirsi al cambiamento radicale che essa porterà nelle nostre vite, al senso nuovo di comunità che dovrà veicolare, sia una nuova grande narrazione, una retorica.
Di cambiamenti ve ne saranno, certo. Si è modificata e si cristallizzerà una disponibilità al controllo barattata con una presunzione di maggiore sicurezza che in realtà già serpeggiava in precedenza. Al di là delle promesse, dei ”nessuno resterà escluso” si amplieranno i divari economici e sociali tra lavoratori strutturati e lavoratori precari, tra piccolo commercio fragile e aziende capaci di reggere e riconvertirsi. Non so se cambierà e si farà più inclusivo il nostro sguardo verso il mondo, se davvero vedremo crescere, così come si dice, il “senso di comunità”. Nei paesi, nelle piazze del parlottio leggero, ora vuote e private dello scambio minuto di informazioni e pettegolezzi, ma anche di quel mutuo rincorrersi di rassegnata condivisione delle fatiche e dei dolori sembrano crescere sospetto e difesa, distanza e silenzi.

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Ponte delle Stecche. Lago di Campotosto, 25.01.19 (Ph. L. Bindi)

Nel sommesso scrivere di un pomeriggio di quarantena mi giunge un messaggio da Amatrice, terra sofferente e densa, campo etnografico solo apparentemente sospeso in queste settimane. So quanto il senso di perdita e la sofferenza per ciò che sta accadendo, per l’impermanenza che ci indica possa amplificarsi in una terra in cui i crateri hanno inghiottito le vite e gli affetti, il rapporto al passato e persino la fiducia nel futuro. Tra un messaggio e una voce, tra una registrazione e una fotografia mi inviano i versi severi di Antonio Cannavicci, poeta pastore di Campotosto. Quattro versi in cammino, asciutti e fulminanti.

Nén ci circà.
Nèn ci circà: ci séme fatti véntu,
séme gliu fiatu ca manté la fiara;
ci séme fatti acqua de pianàra,
séme le scuru digliu firmaméntu.

Nelle strade senza più pastori né animali, dove oggi non camminano e non corrono i santi, dove non si festeggia la renovatio annuale della festa non so se troveremo più paese, non so se saremo meno soli, quando, come nell’adagio formulare che chiude questa favola nera, “tutto questo sarà passato”.

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 Carrese di San Pardo. Larino, 26.05.19 (Ph. L. Bindi)

Bibliografia

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Canetti, E. 1992 [1960]. Massa e potere. Milano, Adelphi.
Cohen S. 1985 [1971]. Visions of Social Control. Cambridge: Polity Press.
De Martino E. 1975 [1958]. Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Torino: Boringhieri.
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Wuthnow R. 2018. The Left Behind: Decline and Rage in rural America. Princeton: Princeton University Press.

 

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#LACULTURANONSIFERMA: LA NUOVA RUBRICA DI ETNOMUSICOLOGIA A CURA DI CLAUDIO RIZZONI (MiBACT)

Con questo spazio di approfondimento sui riti per la Madonna dell’Arco si inaugura la nuova rubrica dedicata all’etnomusicologia, con la quale si intende mettere in valore i fenomeni etnomusicali come elementi pienamente appartenenti al patrimonio culturale immateriale. La rubrica proporrà documenti audiovisivi corredati da presentazioni a cura di studiosi ed esperti, nonché testi di approfondimento e bibliografie di riferimento relative ai temi trattati.

Fra i riti che si praticano nel periodo della Settimana Santa, quelli a cui è dedicato questo spazio presentano alcune singolarità, la più evidente delle quali è che il momento e la figura intorno a cui si articolano non sono il Cristo e la Pasqua, ma la Madonna e il Lunedì dell’Angelo. Non si tratta, dunque, di veri e propri riti della Settimana Santa, ma di pratiche dotate di una sostanziale autonomia che si sovrappongono a questi ultimi.

Quella della Madonna dell’Arco è una devozione mariana originatasi nel XV secolo e tuttora ampiamente diffusa a Napoli e nei paesi circostanti: i devoti alla Madonna dell’Arco – la cui icona è custodita nell’omonimo Santuario a Sant’Anastasia, paese situato alle pendici del Vesuvio, in provincia di Napoli – si recano in pellegrinaggio al Santuario per onorare la propria fede ogni Lunedì dell’Angelo. Fra loro, sono conosciuti con l’appellativo di “battenti” o “fujenti” coloro che, per voto, estendono la pratica devozionale a una complessa attività rituale collettiva che si svolge nel periodo compreso tra l’Epifania e la prima domenica successiva alla Pasqua, con una notevole intensificazione a partire dal Venerdì Santo. Facilmente riconoscibili grazie all’abito rituale bianco che li contraddistingue, i circa 30.000 battenti, appartenenti generalmente ai ceti sociali più modesti, sono organizzati in più di trecento associazioni sparse nel territorio della provincia di Napoli e della città stessa; il culto, le credenze e le pratiche su cui esso si fonda sono il risultato della stratificazione di diversi elementi (alcuni dei quali di probabile origine precristiana), elaborati nei secoli prima dai bassi ceti rurali dell’agro nolano e in seguito dal proletariato e dal sottoproletariato urbano, in parziale autonomia dalle prassi liturgiche: questa distanza si traduce tuttora in un rapporto tendenzialmente conflittuale tra le gerarchie ecclesiastiche locali e i battenti, che pretendono di gestire autonomamente attività rituali a volte incompatibili con norme e prassi post-conciliari.

Le associazioni dei battenti della Madonna dell’Arco sono espressione di comunità strettamente locali – seppur in ambito urbano – caratterizzate da forti vincoli sociali. L’affiliazione al culto e la conseguente frequentazione di un’associazione riflettono quasi sempre il coinvolgimento degli attori in relazioni sociali – attive soprattutto a livello locale, ovvero nei confini del quartiere – che si strutturano in reti familiari e di vicinato.

Tra le diverse pratiche devozionali che ogni associazione mette in atto, il video che proponiamo documenta il rito della funzione, così chiamato dai devoti perché assimilato a una funzione religiosa: esso consiste in un omaggio o saluto rituale effettuato dall’associazione all’indirizzo un’edicola contenente una statua o un dipinto della Madonna (o di un santo), posta in un luogo pubblico – una piazza o una strada – del quartiere di appartenenza dell’associazione. Il rito, che si svolge in presenza di un pubblico composto dai devoti residenti nel quartiere, prevede che la squadra (così è denominato il gruppo di battenti) metta in atto il saluto all’icona attraverso l’esecuzione di specifici atti coreutici che rispondono a codici e convenzioni sviluppatisi nell’ambito del culto: l’azione coreutica, che prevede il movimento con passo coordinato di gruppi di battenti e il vero e proprio saluto – effettuato facendo oscillare pesanti labari detti “bandiere” e imprimendo un movimento ondulatorio a una macchina a spalla, il tosello – è scandita dalla pulsazione regolare fornita dalla musica suonata da una piccola banda di strumenti a fiato e percussioni (la divisione musicale), che accompagna la cerimonia per la sua intera durata. La centralità delle pratiche musicali nel dispositivo rituale, già evidente nel ruolo di sostegno funzionale all’azione rituale che svolgono i brani suonati dalle divisioni musicali, non è peraltro limitata a questo aspetto: la fase apicale della funzione è infatti caratterizzata dall’esecuzione di canti monodici, tra cui un richiamo di questua (voce) di tradizione orale, a cui i battenti attribuiscono la valenza di un atto attraverso il quale esprimere e trasmettere ai devoti e alla Madonna il turbamento emozionale che connota (o che dovrebbe connotare, secondo gli orientamenti e le aspettative dei battenti) l’esperienza religiosa; gli stessi brani suonati dalle divisioni musicali, poi, non rispondono a una logica puramente funzionale, né meramente estetica, ma anche ad associazioni di carattere simbolico tra la musica e le azioni rituali eseguite.

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Proprio questo tipo di associazioni costituisce uno degli elementi sui quali gli attori possono intervenire per adattare il sistema di “costruzione di significati”, che prende forma attraverso la messa in atto del rito, a istanze specifiche, manipolandolo e integrandolo con altri elementi della cultura storicamente dati. La capacità del rito di costruirsi attraverso continue stratificazioni di elementi che rafforzano il rito stesso – attraverso riferimenti a domini simbolici anche estranei a quello propriamente devozionale – è particolarmente evidente se si prende in considerazione, accanto alla presenza di sequenze che prevedono l’esecuzione di inni religiosi comunemente utilizzati per accompagnare le processioni in Italia, quella che caratterizza l’ultima fase del rito, in cui il saluto all’icona della Madonna viene ripetuto, accompagnato questa volta da una versione strumentale de La leggenda del Piave.

Come è noto, il brano è uno fra quelli più eseguiti nel corso di cerimonie istituzionali, in particolare per accompagnare parate militari; ed è proprio quello della parata un modello che, seppur non riconosciuto esplicitamente dagli attori locali, appare avere evidenti influenze sull’azione coreutica messa in atto in questa fase, durante la quale sembrano accentuarsi nel rito i caratteri di un dispositivo funzionale alla auto-rappresentazione della squadra – e per metonimia dell’intera comunità di vicinato – come gruppo coeso, dotato di articolazioni e gerarchie, in grado di esprimere un proprio apparato cerimoniale che in piccolo riproduce i simboli del potere dello Stato.

Alcuni degli elementi che caratterizzano i riti per la Madonna dell’Arco li ritroviamo di frequente in Italia e in area euro-mediterranea. La performance coreutica con la presenza di labari e crocifissi ricorre spesso in ambito processionale (ad esempio in alcune processioni liguri è tuttora diffuso l’uso di far “ballare” i crocifissi); il trasporto di macchine a spalla nell’ambito di feste e processioni è poi talmente diffuso da costituire un elemento altamente caratterizzante dell’intero ambito festivo-rituale italiano. La peculiarità dei riti qui descritti sta piuttosto nel loro carattere proliferante e decentrato che li rende più difficilmente controllabili dalle istituzioni civili e religiose, e più facilmente “risignificabili” dalle comunità che li praticano; un elemento, quest’ultimo, che contribuisce fortemente al mantenimento del capitale simbolico ad esse associato.

Nel video allegato: funzione di Pasqua davanti alla casa di una devota, Ponticelli, 31-3-2013.

Bibliografia

De Matteis, Stefano

2011     La Madonna degli esclusi, M. D’Auria, Napoli.

De Simone, Roberto

2010     Son sei sorelle: rituali e canti della tradizione in Campania, 7 CDs included, Squilibri, Roma [1st ed. 1979].

De Simone, Roberto and Mimmo Jodice

1974     Chi è devoto: feste popolari in Campania, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.

De Simone, Roberto, Annabella Rossi and Marialba Russo

1974     Immagini della Madonna dell’Arco, De Luca Editore, Roma.

Rizzoni, Claudio

2017a“Tradition and Refraiming Processes in the Madonna dell’Arco Rituals in Naples”, in Francesco Giannattasio and Giovanni Giuriati (eds.), Perspectives on a 21st Century Comparative Musicology: Ethnomusicology or Transcultural Musicology?, Nota, Udine: 158-175.

2017b“From the Piazza to the Screen. Observations on the Spread of YouTube and its Use among the Madonna dell’Arco Battenti in Naples”, Philomusica on-line, Nota, XVI, 1: 199-223.

 

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#LACULTURANONSIFERMA. #IOGIOCOACASA. Il Gabinetto delle Stampe: il gioco dell’oca di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini, Anna Sicurezza e Leandro Ventura

Tra le quattordicimila incisioni conservate nel Gabinetto delle Stampe dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale, una cospicua sezione è dedicata al gioco. Oggi ci avvicineremo, in particolare, a una selezione di tavole relative al “gioco dell’oca”.

Presente già nell’antica Cina, il gioco dell’oca è menzionato in Italia presso la corte dei Medici fin dal XVI secolo, quando si trova diffuso in due versioni: con 63 o con 90 caselle.
In generale il gioco è organizzato su una tavola di caselle numerate e differenziate dalla presenza di figure simboliche, e necessita di due dadi e di pedine che rappresentano i partecipanti. È prevista una posta in gioco ed il numero di giocatori è libero.
Il giocare è un percorso di balzi e di retrocessioni affidati alla sorte del lancio dei dadi. Caselle di azione, per lo più rischiose, sono: i ponti, i pozzi, le osterie, i labirinti, le prigioni e la morte con la sua falce; meno minacciosa è la fontana la quale decreta il retrocedere del giocatore di qualche posizione. In alcune varianti il ponte offre uno scivolamento positivo, dal quale si avanza se si paga una posta, mentre in altri esemplari il pozzo e l’osteria impongono soste forzate, fin quando non si viene liberati dall’arrivo di un altro partecipante, che i dadi hanno portato su questi numeri. Anche le caselle delle oche rispecchiano lo stesso schema e possono essere vantaggiose o meno.
Nella tavola che presentiamo oggi, una variante per bambini della casa editrice Piccoli di Milano, risalente agli anni Quaranta del Novecento, rischi e aiuti sono collocati lungo il percorso, nelle caselle della volpe, del leone, dell’orso e dell’elefante. Infauste sono le cadute nei numeri del fucile, della rivoltella e del fuoco. Il vero portafortuna in questa tavola per i più piccoli è il numero 13.

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Stampa Gioco dell'oca (© Gabinetto delle Stampe - ICPi)

Le più antiche stampe del gioco dell’oca conservate nella raccolta dell’Istituto risalgono alla metà del Seicento; altrettanto rari sono alcuni giochi dell’oca settecenteschi, uno dei quali dell’editore modenese Bartolomeo Soliani, specializzato nella produzione di xilografie di larga diffusione: non solo giochi, ma anche almanacchi, calendari ed ex libris.
La maggior parte delle stampe, che risalgono alla fine dell’Ottocento o all’inizio del Novecento, consiste in litografie; furono raccolte da Achille Bertarelli per la mostra di Etnografia Italiana che si tenne a Roma nel 1911, in occasione dei cinquant’anni dell’unità d’Italia. Si tratta dello stesso Bertarelli da cui prende nome la nota raccolta civica di stampe milanese ed è proprio questo il motivo per cui le affinità tra le due collezioni sono fortissime.
Risale invece agli anni quaranta del Novecento una litografia sui toni del blu. Si alternano in tal caso le tradizionali figure dell’oca con altre immagini che rimandano a tempi più moderni: il telefono, la radio, la cinepresa. La stampa, insieme ad altri oggetti legati al tema del gioco, fa parte di una donazione dell’antropologa Annabella Rossi.

Il gioco dell’oca, pur se ancora conosciuto e praticato, si è trasformato nel tempo nelle tante varianti dei giochi da tavolo, nei quali i giocatori muovono pedine all’interno di labirinti o serie di caselle; e dunque, se la scorsa settimana avevamo proposto giochi che sperimentavano le competenze manuali attraverso le sagome da ritagliare e da assemblare, questa settimana siamo in un campo di gioco differente. Affrontare il rischio e creare una nuova socialità possono essere gli obiettivi di azione della tipologia di gioco da tavolo di cui abbiamo parlato oggi. Provate e ci saprete dire. Vi invitiamo a stampare e giocare due diverse versioni del gioco dell’oca, l’una più classica di primo Novecento, l’altra degli anni Quaranta, con gli animali nelle caselle. Vi diamo appuntamento a giovedì prossimo per viaggiare all’interno del nostro patrimonio ludico e scoprire altri giochi di percorso conservati presso il Gabinetto delle Stampe dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale.


Bibliografia

Stampe popolari italiane dal XV al XX secolo, a cura di P. Toschi, Milano 1968
Fabbrica d’immagini, gioco e litografia nei fogli della Raccolta Bertarelli, a cura di A. Milano, Milano 1993
R. Callois, I giochi e gli uomini, Milano 2014

 

Sitografia

Archivio di Stato di Chieti. Rinvenuta stampa del gioco risalente al 1748, pubblicata online su agcult.it il 12 dicembre 2019

https://archivio.fototeca-gilardi.com/home

http://www.giochidelloca.it/

http://graficheincomune.comune.milano.it/

http://xilografiemodenesi.beniculturali.it/collezioni/la-raccolta-soliani-barelli/

 

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Testo e video di Cinzia Marchesini e Anna Sicurezza, con la preziosa collaborazione di Stefania Baldinotti, Massimo Cutrupi, Marco Marcotulli e Leandro Ventura. Un ringraziamento alla dott.ssa Maria Ludovica Piazzi, studiosa di grafica.

 

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#LACULTURANONSIFERMA. #Visionidaiterritori: Le feste del Molise. Dalle mappe tematiche alla Settimana Santa di Isernia di Lia Montereale

La chiusura dei luoghi della cultura a causa del COVID-19 e la sospensione di feste ed eventi, non ferma la fruizione della cultura. Anzi, è in questo momento che vogliamo rafforzare l’offerta culturale attraverso una serie di proposte digitali. Anche la conoscenza del patrimonio culturale immateriale, con le sue feste tradizionali, i suoi riti e costumi, con i suoi giochi di ieri e di oggi, con la sua musica popolare e le sue rievocazioni storiche, prosegue con una serie di iniziative per ripercorrere e riscoprire insieme, anche solo idealmente, la varietà delle realtà territoriali.

vicoli-di-isernia

I vicoli di Isernia

Allora iniziamo da una regione tanto piccola quanto vitale come il Molise nel centro-sud Italia. Il Segretariato Regionale per il Molise, articolazione periferica del MiBACT, ha creato nove mappe tematiche interattive per divulgare la conoscenza del patrimonio culturale presente nella regione.

Le mappe raccolgono su un'unica piattaforma digitale le informazioni che riguardano il territorio, fornendo al visitatore uno strumento semplice da usare che, attraverso testi, ipertesti ed immagini, racconta e facilita la conoscenza del Molise.

Sono interattive, sono costruite su piattaforma Google, sono utilizzabili sia da dispositivo fisso che mobile e sono dedicate ognuna ad uno specifico tema del patrimonio culturale del Molise. Una mappa è dedicata anche alle feste e alle tradizioni molisane ed è consultabile a questo link:
mappa feste e tradizioni

mappa isernia

 

Cliccando sul luogo di interesse (tramite menù laterale o direttamente sulla mappa) possiamo sfruttare le potenzialità di google per ricevere le indicazioni stradali, o per ottenere la vista da satellite della località o per sfruttare l' opzione della condivisione, etc. Inoltre, cliccando sul link che troviamo all'interno della maschera di apertura, possiamo approfondire i contenuti che riguardano la festa o la tradizione legata alla località scelta.

Quindi, come si festeggia tradizionalmente in Molise l’attesa della Pasqua? Cosa si mangia? Partiamo da Isernia, città molisana dalle origini antichissime, che dedica ancora particolare attenzione alla Settimana Santa.

Il venerdì Santo ricorda la crocefissione di Gesù e, la processione del Cristo Morto di Isernia, si arricchisce di elementi suggestivi e coinvolgenti attraverso la partecipazione di uomini e donne che indossano una tunica bianca, un cordone rosso intorno alla vita e un cappuccio che non permette di essere riconosciuti.
Alcuni sono scalzi. Sono i penitenti che portano croci e simulacri raffiguranti la passione e la morte di Gesù: le statue del Cristo Morto e della Mater Dolorosa, i busti degli Ecce Homo e le croci. Isernia è molto attenta alla preparazione delle statue grazie alla dedizione e alla devozione delle signore anziane.

festa isernia

Penitenti, 14 aprile 2006 (Ph. Emilia De Simoni, ICPi)

Sembra di assistere ad una rappresentazione teatrale con i suoi personaggi e la sua scenografia. I colori (nero, rosso, giallo etc.) che ricordano il martirio e la passione di Cristo, i fiori, le vesti e le immagini creano un’atmosfera di intenso raccoglimento e di condivisione della sofferenza. Per saperne di più, è possibile consultare i seguenti link Settimana Santa ad Isernia e significati e simbologie del Venerdì Santo a Isernia.

La festa è anche legata al cibo, e quando arriva la Pasqua un piatto tipico della tradizione è dato dalle Cancelle o Pizzelle conosciute anche come Ferratelle, cialde generalmente a forma di rombo. Questi dolci venivano preparati durante la settimana pasquale, l’epifania o in occasione delle celebrazioni del Santo Patrono, in segno di devozione. Nei paesi dell’Alto Molise venivano utilizzate anche come dolce da offrire ai matrimoni.
Per approfondimenti sui sapori locali molisani clicca su mappa enogastronomia del Segretariato Regionale MiBACT per il Molise.

 

#laculturanonsiferma #lafestanonsiferma #ilpatrimonioimmaterialedelmolise

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Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
Metro Linea B (EUR Fermi) Bus 30 Express, 170, 671, 703, 707, 714, 762, 765, 791
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